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Sveglia prima dell’alba, prepariamo gli zaini e nel frattempo arriva Tambone che stamani è stranamente mansueto e si lascia caricare tranquillamente. Attraversiamo la città ancora un po’ addormentata e prendiamo la strada principale per Ifrane, ben presto circondata da spettacolari ciliegi che però in questo tratto sono molto ben protretti. Per fortuna dopo pochi chilometri imbocchiamo una strada secondaria e il traffico scompare del tutto, siamo circondati da campi di grano e piano piano entriamo nella famosa foresta di cedri che circonda Ifrane. I cedri ci sono, ma molto più piccoli e radi rispetto a quelli che abbiamo visto nella zona più meridionale del Medio Atlas, è una foresta di cedri e lecci ben tenuta, ma ha poco di selvaggio, sembra un grande giardino. Dopo un paio d’ore di cammino sullo sfondo si inizia a vedere Ifrane, sembra una città costruita coi lego, con le case bianche e i tetti rossi super spioventi. È tutto molto ordinato ma totalmente scollegato da tutto quello che è Marocco, per lo meno il Marocco che abbiamo visto finora. Di solito c’è un gran disordine e tanta sporcizia e la poca erba è rasata e contesa dai tanti animali, qui è l’esatto contrario, è tutto geometrico e pulito, ma l’erba spiga e prolifica da tutte le parti e l’unico che ne usufruisce è Tambone, che sta tosando tutti i bordi dei marciapiedi della periferia. Entriamo nel centro e attraversata l’asettica piazza, ci sistemiamo in un appartamentino con giardino. Il tempo è brutto, facciamo un giro a piedi per Ifrane fra villette e grandi edifici pubblici in stile europeo, poi proviamo a visitare il famoso college Al Akhawayn la più prestigiosa università del Marocco, dove studiano i futuri dirigenti del mondo arabo, ma non è possibile. Inizia a piovere e fa un gran freddo, andiamo a internet e ci passiamo il resto della giornata. |
TagDiario di viaggio
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Oggi è l’ultimo giorno ad Azrou, come al solito la pausa è stata un po’ più lunga del previsto ma cose ne sono state fatte tante e poi la parte “giornalistica” del viaggio è impegnativa ma anche gratificante e l’idea di raccontare e commentare il giro del mondo con tante persone mi piace parecchio.
Prima di lasciare Azrou voglio vedere il Collège Berbère e il famoso monastero di Taolumine.
Il primo è un imponente costruzione dentro la città, oggi un po’ malandata che fu costruita dai francesi per istruire i berberi e creare una classe dirigente locale non araba, l’intento era legare i berberi alla francia per tutelarsi dai movimenti indipendentisti portati avanti dai “cittadini” arabi. Nella scuola si studiava il francese, l’arabo e l’islam erano banditi, ma nonostante il disegno facesse forza sull’insofferenza dei “veri marocchini” nei confronti degli arabi, il progetto coloniale si dimostrò un fallimento in quanto gli allievi del collège furono fra i più attivi nei movimenti indipendentisti marocchini. Una stradina sterrata che inizia vicino alla ex grande scuola e attraversa campi di grano entra in una bella macchia di lecci fino a rincontrare dopo qualche chilometro la strada asfaltata per Ain Leuch, ancora un paio di chilometri e si arriva all’ex monastero praticamente irriconoscibile, due pastori mi confermano che è l’insieme di ruderi davanti a me e mi raccontano che qui i frati curavano le persone con i medicinali ma poi sono andati via, loro dicono 50 anni fa io avevo letto negli anni 90, comunque la struttura che assomiglia a una grande fattoria abbandonata è messa proprio male, è in totale degrado nonostante ci abitino delle persone.
La gente non ama parlare del passato sembra che la storia sia un qualcosa che conviene dimenticare, soprattutto nelle città.
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Il tempo è discreto vorrei noleggiare una moto o una macchina per fare un giro nei dintorni ma non se ne trova, ma va bene anche così perché alla fine con skype e internet sistemo un sacco di cose. | |
Oggi gli uffici sono aperti e allora vado in cerca di una carta dell’Atlas, alla biblioteca comunale che è dentro una chiesa sconsacrata, non c’è niente di interessante, dalla forestale nemmeno, passo la mattinata sbatacchiato da un ufficio all’altro ma la mappa non c’è, però ci sono tante belle riviste dove c’è il re che va con la moto d’acqua, poi c’è il re che ammazza un cervo e anche il re che gioca a biliardo.
E’ difficile avere informazioni spesso la stessa domanda fatta a dieci persone diverse dà dieci risposte diverse, a volte anche la stessa persona cambia la versione più volte ma alla fine è anche divertente.
Il tempo brutto mitiga la voglia di partire e aiuta ad andare avanti con i lavori “virtuali”.
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Come sempre nelle città gran parte del tempo finisco per passarlo ad internet per cercare di sistemare il sito del viaggio e seguire il Viottolo, poi per aggiornarmi attraverso Elbareport sulle vicende dell’Isola dove in questi giorni si celebra Pietro Gori e anche su quelle della patria dove si “celebra” Calderoli.
Azrou è una città tranquilla ma l’impatto con i centri urbani, scendendo dalle montagne, è sempre negativo. Qui sei merce, ti parlano in inglese o francese con frasi fatte senza curiosità solo per forma e interesse, cercando se possibile di fregarti. Ci sono turisti ma di passaggio al massimo si fermano una notte.
Quando esco dal cyber è tutto deserto solo qualche persona nella zona dei bus.
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Sveglia all’alba, anche oggi c’è da fare un “tappone”, apro la porta per vedere che tempo è, ma sull’uscio c’è l’omo bianco che mi rimanda in casa, prima si fa colazione e poi tutto il resto, nel frattempo manda la seconda moglie a far bere il mulo al lago. Appena partiti passiamo davanti alla grande maison forestale costruita dai francesi nel periodo coloniale e oggi fatiscente, scendiamo a vedere le sponde del lago Ouiouane dove “navigano” tranquille un po’ di anatre, è un bel laghetto con le sponde erbose e circondato da grandi alberi. La strada sale a curvoni nei tratti più ripidi il cemento sostituisce l’asfalto, ritroviamo i grandi cedri, e nelle radure i villaggi dei semi nomadi, con le loro case baracche di legno e teli di plastica. La salita finisce in un grande altopiano dove fra grandi massi di calcare, numerose greggi pascolano nell’erba bassa, ai margini la foresta che copre le zone alte e poi colline rossastre a perdita d’occhio. Anche qui in alto c’è un villaggio, la maggior parte delle persone sono arrivate da poco e le baracche sono in allestimento. Passo vicino a un pozzo scavato in mezzo alla radura dove ci sono due donne con due bimbe piccoline che giocano sopra una coperta, in realtà più che un pozzo è una buca sopra un fiume sotterraneo, una prende l’acqua col secchio e la tira sui cenci e l’altra li pesta coi piedi, mentre dentro dei tinozzoni scuri c’è la lana appena tosata a spurgare nell’acqua. Le donne parlano solo Tamazigh ma è un dialetto molto diverso da quello sentito finora. La strada inizia a scendere, ogni tanto si incontra qualche pastore fra le rocce bianche e i tanti lecci, sulla carta che questa zona viene definita una foresta di cedri, ma in realtà è una macchia di lecci che ricorda il nuorese. E’ una ventina di chilometri che si cammina, il paesaggio è bello ma l’asfalto rendo tutto meno affascinante anche se traffico non ce n’è. Nei pressi di Ain Leuch troviamo una schiera di chalet in stile alpino abbastanza disastrati, poi si entra nella cittadina, sembra un paese europeo con palazzoni e grandi edifici pubblici, sarebbe l’ora giusta per mangiare ma anche se sembra impossibile non riesco e trovare un posto per Tambone e allora si prosegue attraversando il centro di questo paese in discesa. Si sbuca su una strada trafficata dove passano camion con grandi tronchi di cedro e si iniziano a vedere i ciliegi con i frutti maturi. Per fortuna dopo poco prendo una via secondaria senza traffico e fiancheggiata da tantissimi ciliegi stracarichi di ciliegie mature, la tentazione è troppo forte nonostante i guardiani che sono accampati dentro i frutteti con delle tendine di teli di plastica, quando vedo che i guardiani sono più incuriositi dal viaggio che dal furto di ciliegie inizia una scorpacciata ininterrotta di un paio di chilometri. Fra ciliegi e campi di grano arriviamo (omo e mulo) a sera “colli stranguglioni”. Dopo una decina di chilometri di pianura fra i coltivi ,la via risale e si rotola sinuosa in una fitta macchia di lecci, poco prima del tramonto vediamo Azrou dall’alto, è molto grande ed è dominata da un’enorme moschea. La città sarebbe vicina ma la strada cammina in alto sulle colline facendo un giro largo nella macchia, è notte piena ma c’è una temperatura piacevole, entriamo nel centro abitato da una grande via illuminata con le rotonde e ampi marciapiedi, sembra una moderna città europea, senza nemmeno capirlo mi trovo proprio nel centro davanti alla grande Moschea dove c’è un albergo, sono le dieci per stanotte si dorme qui, come sempre l’ingresso col mulo crea ilarità, qui più che mai, visto che si sentono cittadini, comunque si trova anche una buona sistemazione per Tambone in un campetto accanto all’hotel. Le ciliegie ormai sono stradigerite, ora si cerca qualcosa da mangiare poi Azrou la cominciamo a guardare bene domani. | |
Sveglia alle cinque, si carica e si parte, dopo mezz’ora siamo già in marcia su un bel sentiero fra lecci e speroni di calcare, è un paesaggio che ricorda la Sardegna dalle parti del Supramonte. Ogni tanto si incontra una radura seminata a grano e Tambone trebbia, uscendo dalle macchia il sentiero è delimitato da muretti di sassi bianchi per difendere il grano dai muli di passaggio.
Incontriamo un gruppetto di case e stalle con il tetto spiovente, è una campagna ricca e ci sono tante mucche, un uomo gentile, incredulo ma divertito dall’averci visto sbucare dalla macchia, mi indica una scorciatoia fra i campi di grano. C’è ricchezza d’acqua e in un fossetto prima del paesino a fondo valle vediamo un po’ di tartarughe, il paese è piccolissimo la moschea bianca da lontano lo faceva sembrare più grande, è un nucleo di una decina di case in pietra con i tetti spioventi di tavole di cedro, la cosa più bella sono i nidi delle cicogne da cui fanno capolino i cicognini appena nati. Madama denti d’argento, una berberona dal sorriso metallico, ci mette sulla giusta via, sempre lungo il oued fino a trovare le cascate. Si cammina fra i campi di grano, nel fiume che in realtà è un fossetto di acqua salata dove si formano delle piccole anse ci sono tante tartarughe, comincia a fare caldo quando arriviamo in una gola rossa dove ci sono delle grandi grotte, è arido ma dalla forma delle grotte si capisce che c’è acqua nel sottosuolo. Arriviamo su, sopra una gola stretta, sotto di noi il salto, è strano perché il fossettino salato nel giro di cinquanta metri diventa un torrente impetuoso e ricco di rapide, sono le sorgenti dell’Oum er Rbia il fiume più lungo del Marocco. Scendiamo per visitarle da vicino, Tambone è incazzatissimo per essere finito fra i sassi dopo aver visto (e assaggiato) tutto quel grano, salta il fosso stile cavallo di zorro e si schianta sulle lisce, per fortuna, a parte il teatrino, tutto bene, parcheggiamo il fava e facciamo il giro delle cascate.
Il posto è bello ma turistico, ci sono tanti ristorantini sui lati delle rapide, in fondo alla gola arriva la strada e quando arrivano le macchine dei turisti c’è una nuvola di persone che si contende i clienti, ci sono tanti turisti europei ma sono numerosi anche i marocchini delle città. Tutto il paese in pratica vive sull’attrattiva delle cascate. Facciamo una pausa pranzo e poi si riparte. La strada sale dal lato opposto al fiume in direzione nord, è una strada asfaltata circondata da campi di grano e ogni tanto qualche casa isolata con il tetto a capanna, il sole è gia tramontato quando arriviamo a Ouiouane, un altopiano con una piccola Moschea isolata fra i campi e poi qualche casa, ce n’è una con le mura bianche, le persiane verdi e il tetto a capanna coperto a marsigliesi che la fanno assomigliare a una tipica casa Elbana, tra nostalgia di casa e la poca voglia di montare la tenda come da programma mi ritrovo ospite della casa bianca e Tambone rimedia una stalla di lusso con paglia e fieno. Il portone verde si apre su un’aia pulitissima dove fa gli onori di casa un austero signore alto e bianco di vestito, ha un nome impossibile e dirige le tre donne di casa come schiave, ci portano degli sgabellini di legno e un bollitore di acqua calda per lavarsi, poi seguendo la rigida regia del capo veniamo accompagnati nella sala per una merenda con pane burro e the, la serata si chiude con un abbondante tajine.
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Si parte presto, lungo la via ci sono tanti piccoli villaggi con le case dai tetti spioventi quasi tutti in lamiera e nei pascoli ci sono tante mucche. La strada scende dolce sul fianco dalla montagna contornata da campi di grano e Tambone cammina a testa bassa come una trebbiatrice rifilando le spighe a bordostrada. Sotto di noi una valle profonda che si estende in lontananza verso est in direzione di Khenifra e prevalentemente di terra rossa che fa risaltare ancora di più i numerosi “fiumi di sale”, la pianta più comune è il leccio, ma prevalentemente ci sono campi di grano che comincia a diventare giallo e tanti papaveri. A monte delle sorgenti non salate partono gli acquedotti che irrigano i fianchi della valle, mentre in fondo al pendio scorre il fiume Chbouka. Nel verde spiccano grandi rocce di calcare e il canto dei grilli e le api sui fiori ci fanno capire che siamo in piena primavera. Si sale e ritornano i cedri, la strada si inerpica fra decine di piccole valli in linea d’aria si fa pochissima strada, poi inizia la discesa, incontriamo qualche pastore e poi in una radura delle fornaci abbandonate per cuocere la calcina. In questa zona i cedri sono giganti, ci sono tanti falchi e si vedono volteggiare anche due bianconi, poi una famiglia di bertucce attraversa la strada in gruppo per poi disperdersi arrampicandosi agilmenrte sui cedri, ce ne sono tante di queste scimmie, se ne stanno sedute sui rami osservandoci curiose. Proseguendo incontriamo delle strane rocce di calcare con degli inserimenti di rocce rossastre che sembrano sculture astratte.
Sotto i cedri, poco prima di un altopiano coltivato, una tenda di nomadi, per quanto mimetica ruba la scena, è fatta di sacchi lisi cuciti fra loro e bruciati intorno al tubo della stufa, si affaccia una bimba bellissima, è vestita di rosso e ha un portamento fiero, gli chiedo a cenni se posso fare delle foto, mi sorride contenta e chiama anche le sorelle, sembra un’ immagine proveniente dal passato, mi sembra di essere dentro un immagine di CesareMaria De Agostini che a inizio ‘900 fotografava gli abitanti della Terra del fuoco.
Uscendo dalla foresta troviamo un piccolo insediamento, intorno ad un pozzo circondato da grano maturo delle donne alte e longilinee stanno lavando. Incrociamo una signora con un mulo che ci da informazioni precise, confermate subito dopo da due pastorelli, il paese Ajdir in realtà non esiste è una grande pianura in mezzo ai cedri dove pascolano centinaia di pecore e intorno un po’ di capanne di legno di cedro e lamiera, i pastori, man mano che si avanza, ci indicano la via per l’Aguelmane (il lago). Oltre l’estesa radura sul confine della foresta c’è un villaggio di case in legno con alcune tende a cono rovesciato come quelle dell’indiani d’america, sembra un villaggio di pionieri uscito da un racconto di Jack London. Ci fermiamo all’ultima casa, ha il tetto fatto con tavole larghe quasi un metro e davanti all’ingrasso c’è una tenda a cono rovesciato che protegge il forno. Fatima, la padrona di casa, prima ci offre latte appena munto, pane e l’immancabile athey, poi ci accompagna fino ad una recinzione abbattuta dove inizia una foresta incantata, c’è un piccolo viottolo ombreggiato da cedri giganti, i più grandi visti finora, e le lame di luce che ogni tanto filtrano fra i rami rendono tutto ancora più magico, il sentierino si perde in mille dedali ma una signora dal volto tatuato avvolta in un manto turchese mi indica il giusto cammino. Nella foresta ci sono delle spianate di rocce bianche dove ci sono diverse bertucce che quando ci vedono velocemente salgono sugli albri, ce ne sono tante almeno una ventina, alcune ci guardano dai rami piu alti, ci fermiamo un po’ su queste “lisce”per godersi questo scorcio da “libro della jungla”.
Le scimmie dopo pochi minuti si tranquillizzano e cominciano a scendere facendo delle evoluzioni spettacolari, si avvicinano ma non troppo e sempre guardinghe, nella foresta comincia a fare buio quando ripartiamo, camminiamo ancora una mezz’oretta e poi arriviamo al lago Azigza. Sul lato opposto del lago arriva una pista e la conseguenza è che c’è un po’ di spazzatura, infondo al lago c’è una grande casa in degrado, ci spostiamo lì per chiedere ospitalità. In origine era un albergo ristorante ma ora è ridotto proprio male, ci vivono due coppie giovani e quattro bimbi piccoli, la cosa strana è che stanno in una specie di baracca sotto la gronda e usano la struttura grande come magazzino, per noi il “gran garage” è un’ottima sistemazione così non si monta la tenda e domani si parte presto.
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Ci svegliano tre pastori, con loro scendiamo alla sorgente e poi alla radura grande dove c’è la loro tenda con il tubo della stufa fumante, il pastore più anziano sta preparando il the. Tutt’intorno ci sono mucche e muli al pascolo, mentre le pecore sono ancora nel chiuso. Facciamo colazione nel prato tutti insieme su una grande tovaglia rossa. In sella a un grande mulo bianco arriva Driss, ha portato the e farina, è un amico della famiglia ed è l’unico del gruppo che parla francese, come sempre ci invitano a rimanere e la voglia è tanta, stando qualche giorno con loro scoprirei posti favolosi imparando tante cose, ma la strada da fare è tanta. Veniamo accompagnati alla nostra tenda e ci aiutano a caricare, ci si sente fra amici e il momento del saluto come sempre in questi casi si appesantisce nel silenzio rotto da gesti ampi di saluto, herra !! Si lascia il bel plateau avanzando nella strada che si insinua nella foresta. Il canto fragoroso e insistente delle rane ci conduce su una grande pozza dov’è in corso un’orgia anfibia, ci sono diverse centinaia di rane che si inseguono e si accoppiano continuamente, nei pressi della pozza ci sono delle cicogne che beccano frai prati umidi. Proseguiamo lungo la strada immersa nella foresta di questi giganteschi alberi monumentali, ogni tanto si trova qualche radura. In un grande altopiano erboso incontriamo un anziano pastore che in compagnia di una bambina vigila su un gregge di pecore e qualche mucca, c’è anche un vitellino con il muso rinchiuso in una spinosa maschera di ferro. Dopo una dozzina di chilometri pressoché a livello, si inizia a scendere, sulla strada si incontrano tante moto perlopiù di spagnoli, man mano che perdiamo quota diminuiscono i cedri e ritornano i lecci. Arrivati al fiume la strada risale dall’altro lato a tornanti per poi distendersi e scorrere a mezza costa. Incontriamo delle case lungo la strada in stile francese, ma con tetti in lamiera, e dei piccoli torrenti di acqua salata contornati da cristalli di sale. Lungo la via incontriamo Abdullah che ci invita a casa, accettiamo. E’ una situazione strana, in realtà non è la casa di Abdullah, qui abitano solo una ragazza, Fatima e le sue due sorelline che stanno rientrando con gli animali dal pascolo. E’ ormai notte quando arriva la mamma, sembra molto vecchia, è tutta gobba e dolorante ma è gentilissima. Ci guardiamo un pò di foto poi arriva anche il babbo, mangiamo il classico tajine e poi andiamo a dormire. | |
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Domani arriva il re e nella notte sono arrivati altri militari, la scuola che si vede dalla finestra è circondata da camion dell’esercito. Tambone fa le bizze non c’è verso di caricarlo, scalcia continuamente probabilmente disturbato da tutto questo traffico. Facciamo colazione al solito bar legando Tambone a una bandiera e poi imbocchiamo lo stradone asfaltato che prendono i pullman diretti a Marrakech con le prode tutte linde e imbandierate. Dopo un paio di chilometri incontriamo un pastore che ci indica la via nel deserto che conduce verso Itzer. Nel plateau arido incontriamo dei muli soli, poi si iniziano a trovare cespugli fioriti e campi di grano per la gioia di Tambone che ogni tanto si tuffa fra le spighe. Si va avanti a saliscendi fra zone aride e campi di grano e biada dove si incontrano papaveri viola e rossi. Siamo ormai al godron il plateau arido è finito, Itzer è alla nostra destra e finalmente siamo sotto le montagne delle famose foreste di cedri. Il panorama è cambiato nettamente, sembra di essere nella campagna maremmana, fra coltivi e chiazze di macchia, una donna che sta lavando al pozzo ci mette sulla giusta via, ci sono delle zone rimboschite a pino e tante mucche al pascolo. Passano dei quad, uno si ferma, è uno spagnolo simpatico ma un po’ rincoglionito che non sa da dove viene né dove sta andando, però segue la polvere di quelli davanti e si diverte un casino. Incontriamo di tanto in tanto delle fattorie e qualche contadino sui muli che ci aiuta a trovare la via. Dopo qualche ora ritroviamo il godron e finalmente iniziamo a salire incontrando i primi cedri che diventano sempre più giganti. Serena è stanca e monta sul mulo, si sale oltre i duemila metri circondati dai cedri, in lontananza, dopo il plateau, l’Ayachy che si sta defilando, arrivati al culmine, ci troviamo in un posto da favola, sotto di noi si apre una grande radura erbosa dove dei pastori nomadi hanno montato la loro tenda. Noi la tenda la montiamo più in alto all’inizio della foresta sotto un grande cedro. Si fa conoscenza e mi invitano a cenare insieme, ma Serena è in “coma” e ci diamo appuntamento per domattina a colazione.
Davanti al falò mi godo il silenzio e le stelle fra le enormi sagome scure dei cedri.
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