Grande dormita e giro pigro per Midelt, oggi è giorno di souk ma io sono attratto dalle pasticcerie.
Raib, lo yogurt cremoso, come sempre è molto buono, ma anche le mille foglie non sono male, fa un gran freddo e tira vento, in montagna è nevicato tanto, il manto bianco si è abbassato di almeno 500 metri. Midelt è un posto tranquillo disteso su un altopiano a 1488 metri di quota, è dominato dalla catena dell’Ayachi. Qui le persone sembrano tutte uguali vestite di scuro e senza magia, ma forse perché la testa è ancora alla montagna. |
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TagDiario di viaggio
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Sveglia alle cinque colazione e partenza, i ragazzi sono tutti eccitati per il recupero, ieri sera abbiamo guardato le foto per localizzare il punto, si sale veloci su un sentiero dritto, solo una piccola deviazione per prendere l’acqua. Alle 9,30 siamo già al oued secco, Moha lega il mulo e poi scendiamo nella gola di corsa perché loro pensano che qualcuno possa rubarsi carico e mulo, invece è tutto dove l’ho lasciato Tambone e zaini.
Mohammed prende Tambone e noi i bagagli, un‘ora e siamo già sulla via di casa. È andato tutto bene, grazie alla solita fortuna questa volta nei panni di due ragazzi abili e generosi. Facciamo merenda con formaggio di capra, pane, olio e l’immancabile the, mentre il tempo comincia a ingrigirsi, sta arrivando tagut, ancora qualche ora e il recupero sarebbe stato un problema. La discesa è ripida, cambiamo via per evitare un canalino con la neve pericoloso per i muli. Lungo il percorso incontriamo diversi pastori fra cui il babbo e il fratello di Moha e arriviamo alla grande tenda dove Serena è stata adottata dalla famiglia, perfetti per il pranzo. La regina della tenda è la mamma Eto che sta tessendo un grande tappeto multicolore sull’ “astà” (il telaio). La tenda è magica e confortevole con la luce che filtra dai lati e il fumo del focolare sale disegnando spirali, si sta benissimo sui tappeti, circondati dai capretti appena nati, la tenda è montata in pendenza così il calore sale nella zona alta dove si dorme, i teli laterali si aprono e si chiudono rapidamente per avere luce o riparo a seconda delle esigenze. Si sta bene, c’è armonia in questa famiglia, i Nomadi sono persone speciali, stando con loro si gusta il sapore effimero della libertà circondati da larghi sorrisi e occhi grandi, sono poche le parole che attraversano la tenda, prevalgono le risate leggere e gioviali come lo sguardo scintillante di Moha quando parla fiero della sua piccola tenda bianca di sacchi cuciti. La tentazione di fermarsi c’è (come cantava Battiato la voglia di vivere a un’altra velocità), ma voglio andare a Midelt per aggiornare il sito e raccontare le belle storie della gente dell’Atlas. Lasciamo Tambone qui e ci incamminiamo verso Midelt accompagnati dai due ragazzi, sta arrivando il brutto tempo, ridiamo dello scampato pericolo, in alto nevica Tagut! Ora si ride ma è andata bene, un altro giorno e avremmo perso Tambone e i bagagli, Tagut, Tagut, detto a denti strinti e fronte arricciata, inculoatagut … A Flilo, il primo paese dove arrivano i taxi, ci salutiamo e entriamo a Midelt da anonimi turisti europei, doccia e dormita in albergo.
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Sveglia 5.30, facciamo colazione col burro fuso, la specialità di Taarart, Baali ci dice che il passo per Midelt è chiuso, c’è troppa neve per valicare dalle piste di montagna, per arrivare nel capoluogo di provincia bisogna tornare indietro, domani decido, oggi voglio provare a salire fino alla vetta del Djbel Ayachi che con i suoi 3737 metri è la terza vetta del Marocco dopo il Toubkal e il Mgoun. Si esce di casa e le vie del paese sono invase da una grande mandria di mucche, muli e cavalli che sta scendendo verso valle, è una scena bellissima: la transumanza, la mandria scende veloce dentro una nuvola di polvere, è una macchia scura dai confini mutanti dimensionata da uomini e donne avvolte in vesti colorate che gli corrono tutt’intorno, garanti dell’incolumità dei coltivi del fondovalle. Correndo dietro la mandria mi ritrovo lontano dal paese, Serena mi raggiunge e cominciamo a salire sui fianchi del massiccio dell’Ayachi, siamo circondati dai muri a secco dei terrazzamenti dove il verde del grano, qui ancora basso, fa risaltare le fioriture dei numerosi meli. Camminiamo in direzione di una serie di cascatelle, man mano che si sale il pendio si fa più ripido e i pianelli assomigliano a tante piccole isole fortificate, tronchi scavati canalizzano l’acqua dal fosso ai coltivi. Raggiungiamo i salti d’acqua, c’è silenzio e profumo di menta e nipitella in questo Poio d’Atlas, sopra il liscione più grande un ampio getto d’acqua esce dalla roccia e si lancia in orizzontale per più di un metro, sopra solo e sassi e aridità, qui nasce il fiume.
Sopra la sorgente ci sono solo friabili sentierini arditi anche per le capre, saliamo dall’altro lato dove piccole piante abbarbicate di leccio e ginepro danno stabilità al terreno, in queste “macchie estreme” la gente viene a fare la legna, il paragone con la natura benevola dell’Elba è inevitabile, qui tutto deve essere conquistato con grande fatica. Anche qui ci sono tanti fossili, i più appariscenti sono i grandi amoniti, i più belli i trilobiti. La montagna è scura, ma attraversata da fasce di rocce chiare che disegnano degli ampi semicerchi somiglianti a schiene di giganteschi sauri dalle squame rettangolari, è molto ripido e si prende quota rapidamente, il terreno cambia forma, sfasciume, calcare e poi rocce scure disintegrate dal gelo. Serena preferisce fermarsi, guardando in basso, la grande pendenza e il paese, ora piccolo piccolo, mi ricordano le ascese allo Stromboli. Salgo verso una montagna che non vedo, incontrando la prima neve la vegetazione è praticamente scomparsa ma di tanto in tanto come per miracolo fra le rocce che si sono appena liberate dalla neve compaiono dei fiorellini viola, la pendenza elevata mi mette col “muso” sul monte mettendomi spesso faccia a faccia con favolosi fossili. Ora si vedono anche le montagne in direzione di Er Rachidia che erano nascoste dalla catena (con picchi superiori ai 3400 metri) opposta alla valle di Taarart, a est si vedono le montagne lontanissime, mi sembra di vedere anche il Toubkal ma non ne sono sicuro, la sensazione è di essere sul confine di una grande catena.
L’ultimo tratto è meno impegnativo, c’è tanta neve, ma è una specie di altopiano e si cammina bene, intorno nei canaloni ci sono grandi accumuli di neve. Arrivato sul culmine (mt 3737) mi godo il magnifico e ampio paesaggio a 360 gradi, c’è tanta neve e il sole inventa mille riflessi rendendo tutto fiabesco. L’affaccio verso nord regala dirupi e precipizi pronti ad inghiottire l’imprudenza e poi oltre si vede la grande pianura, il fiume Melloul, Midelt e il grande lago artificiale. A Ovest ancora montagne impegnative, le ultime dove c’è il passo che voglio valicare, lo vedo bene, non c’è molta neve, sarà impegnativo ma credo fattibile, mentre il medio Atlas che prosegue a nord oltre la pianura di Midelt ha un aspetto più dolce. Mi faccio un po’ di foto in vetta, non è assolutamente una montagna impegnativa, ma salire sul culmine mi da sempre una grande soddisfazione, mi viene in mente “La conquista del K2” un libro letto da militare durante le ronde notturne rubando le chiavi del comando (dove c’era la libreria del colonnello).
Inizio a scendere, la cosa più divertente è scivolare nel fango, in lontananza vedo Serena che è risalita un po’. La discesa è interminabile, nonostante si scenda velocemente sembra più lunga della salita, dopo le rocce scure, il terreno morbido, poi le rocce a cerchi, ma il duuar sembra sempre alla stessa distanza, quando arriviamo ai campi coltivati la notte è alle porte, entriamo nel paese ormai tutto rintanato, a casa ci attende Baali che vuole essere fotografato sul suo trattore, l’unico di Taarart. E’ già notte quando il silenzio ascetico della valle viene scardinato dalla cantilena ritmata di una canzone berbera, per un attimo penso a un altro lutto, ma per fortuna è una festa di fidanzamento. Sono ragazze che cantano e suonano tamburi fatti con contenitori e bottiglie di plastica. I Berberi amano la musica, le loro litanie accompagnano tutti i momenti della giornata, quando si cammina spesso prima si sente il canto e poi si vedono le persone, cantano da soli e in compagnia spesso ripetendo all’infinito la stessa nenia. Come mi spiegava Mohamed di Zawyat Ahansal, i Berberi non amano la scrittura, la loro cultura è musicale e la storia è tramandata attraverso le canzoni. Rientriamo che è pronta la cena, facciamo il pieno di burro fuso e ciccia, domani sarà una giornata impegnativa e le donne di casa ci hanno preparato una cena energetica. Siamo nella grande sala che è anche la nostra camera, al muro sono inchiodate le immagini del re, fratello del re e del figlio del re, Baali mi chiede chi è il re d’Italia, gli dico che in questo momento siamo senza ma fra qualche giorno anche l’Italia avrà una specie di re e mi addormento con l’immagine incubo delle case degli italiani con le pareti di sala adornate con le foto di tutta la famiglia Berlusconi.
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Sveglia alle sei, ci saluta Hussain che sta già andando a lavorare nei campi, è un ragazzino, ma è già un uomo, ha in pratica tutta la famiglia sulle spalle. Facciamo una provvidenziale colazione da contadino dell’Atlas mangiando due ciotole di pasta, prima di salutarci il vecchio Wasen mi da delle preziose dritte su come legare il tagrart, mentre le donne di casa si fanno un sacco di foto con Serena. La strada scende fiancheggiando il fiume, c’è l’asfalto ma si incontrano solo donne ciccione in sella a microciuchi, al guado incontriamo una famiglia mamma e figli che con i loro asini stanno facendo il percorso all’inverso.Viaggiare col mulo è eccezionale per fare conoscenza, non sei schermato da lamiere e vivi alla velocità delle persone che incontri, anche i termini che usi sono gli stessi: tagrart, shuarì, host, herra, ssscohoh, yallah, oued, adrar, duuar, tizi, nishan, e quando ti sentono pronunciare qualche parola in dialetto sei di famiglia, un po’ come succede in Corsica nei borghi del dito quando discori all’Elbana.
Arriviamo ad Agoudim, un paese bello con diverse Kasbak, alcune anche con decori raffinati, e numerosi edifici costruiti dai francesi che ricordano il passato minerario di questa zona. Un ragazzo si avvicina e ci invita a casa sua a prendere il the, ottima occasione per avere informazioni. Mentre Ou Abbas ci parla della sua gite in costruzione in società con uno spagnolo, Tambone si sdraia col carico, colgo l’occasione per ripartire prima che il thè diventi un pranzo e poi una cena. Si prosegue lasciando la strada, la primavera sta colorando i campi, i fiori gialli e bianchi rendono più gioviale il paesaggio imponente delle grandi montagne. C’è un fosso dove diverse ragazze stanno lavando, tutte vogliono essere fotografate, qui il rapporto con le foto è totalmente diverso dalle zone della prima parte della traversata, c’è la ressa per guardare le foto nel display della fotocamera.
Arriva dalla montagna una carovana di muli al trotto carichi di legna, sono una decina alzano la polvere e danno spettacolo, sono guidati da giovani donne che qui sono più intraprendenti, in tante ci invitano a casa e ci danno informazioni sulla via per Taarart, anche se non capiscano perché se dobbiamo andare a Midelt passiamo dalle difficili vie di montagna invece di passare dalla strada asfaltata. Percorriamo una pista sterrata che attraversa un deserto di roccia grigio senza traccia di persone, dopo un paio d’ore incontriamo due donne di ritorno dalla macchia, ci vogliono invitare a pranzo, rifiuto a malincuore, mi colpiscono i bei gioielli, credo d’argento, che gli adornano i polsi, da noi credo che le donne un siano mai andate ingioiellate alla macchia. La strada è larga e monotona, incrociamo un pastore che mi da buone dritte, poco dopo arrivano due camion (i mitici bedford) sui cassoni ci sono almeno cinquanta persone, che sommate a quelle in cabina e sul tetto fanno più di sessanta persone a camion. Chiedo informazioni e mi confermano che siamo sulla via giusta per Taarart, ma mi dicono anche che a Taarart non c’è niente solo freddo e miseria.
Saranno le tre del pomeriggio quando incontriamo un villaggio, dalla prima casa ci chiama la padrona di casa per il the, non me lo faccio dire due volte, ho fame e sete. Ci prendiamo il the e si mangia anche una bella frittatona. La donna vive sola con i figli, un bimbo e una bimba che stanno guardando alla televisione dei cartoni animati giapponesi, che sono gli stessi in tutto il mondo solo che qui si cucina su una stufa ricavata da una latta, si vive dentro una casa di fango in compagnia dei polli e l’acqua si prende al fosso. Fatima è originaria di Imichil, è tutta eccitata, ci fa vedere le foto di una festa, credo il matrimonio, e poi mi chiede di fotografarla insieme a Serena con un con un vestito da festa. Ci invita per la sera facendoci ben presente che lei ha una mucca che fa tanto latte, decliniamo anche l’invito a pernottare della donna di Imiclhil e si riparte. All’ingresso del paese di Thirermine i campi sono colorati di verde inteso e le donne del villaggio sono nei coltivi a sarchiare, mentre nella “piazza” del paese c’è la solita stesa di vagabondi. Attraversiamo il borgo seguito dal brusio dei commenti e dalle risate della gente, chiedo un po’ di informazioni e proseguo sulla via principale. Da un vicolo intravedo sfuggente una bella ragazza dagli occhi grandi tutta vestita di bianco, la rivedo poco dopo in sella a un mulo mentre stiamo guadando il fiume, che cavalca verso le montagne innevate come una misteriosa principessa delle nevi.
La pista prosegue in alto sul lato sinistro del fiume, sotto di noi una campagna coltivata, rincontriamo uno dei due camion, sta scaricando persone e merci casa casa. Questi camion sono l’unico mezzo di trasporto e tutto merci, persone e animali viaggia sul cassone e fa anche da trasporto informazioni, dalle case la gente si avvicina per sapere cosa succede fuori dalla valle, il camion e un po’ come quando arriva la nave a Pianosa. Risaliamo la valle, sopra di noi si vedono solo montagne brulle, mentre dall’altro lato ci sono delle meravigliose montagne innevate che ricordano le dolomiti i cui picchi superano i tremilaquattrocento metri. Il paesaggio torna selvaggio, incontriamo solo spavalde donne sui muli, la neve è sempre più vicina, dovremmo essere sotto il Jbel Abachi ma non si vede nessuna grande vetta innevata sopra di noi. Nella valle sta entrando il gelo quando raggiungiamo un austero duuar di cui ignoravo l’esistenza, perché non segnalato nella cartina, gli abitanti sono ostili, si vede che qui estranei ne viene pochi, tutti si allontanano al nostro passaggio, però ci si sente gli occhi di tutti addosso. Si avvicina un anziano gentile che mi indica la via per Taarart fra i vicoli del borgo dicendomi che mancano ancora cinque chilometri e consigliandomi di rimanere da lui per la notte. Ormai manca poco voglio arrivare, proseguiamo, bisogna guadare nuovamente il fiume, fa freddo e per portare sull’altra sponda Tambone bisogna bagnarsi fino alle caviglie, ma la solita fortuna arriva anche stavolta, arrivano due uomini dal lato opposto con i muli e uno di loro prende per le redini il nostro asserdom e lo porta di là, così noi passiamo saltando fra i sassi e rimanendo asciutti, è un favore enorme perchè sicuramente siamo sotto zero.
Viene notte, la via è illuminata dalla neve che riflette la luce della luna e delle stelle, dopo una mezz’oretta si vedono alcune luci che si specchiano nell’acqua, per raggiungere il paese bisogna passare un altro guado, per fortuna c’è una specie di ponte e raggiungiamo Tarrart con i piedi asciutti. Il paese si sviluppa sui due lati della via, ci spostiamo a sinistra dove ci sono delle luci, c’è una specie di bar negozio dove ci sono un po’ di uomini che giocano a carte, chiedo se possiamo dormire da qualche parte oppure montare la tenda, dopo un primo momento di sguardi cupi, l’atmosfera si fa più rilassata, si avvicina un omone che ci invita a seguirlo a casa. Entriamo nella grande casa di Baali, costruita in pietra, calda e profumata di legna bruciata, ci offrono burro fuso, pane caldo e the e ci invitano a restare qualche giorno.
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Il padrone di casa ci sveglia alla cinque per la colazione, ci prepariamo per la partenza. In paese c’è grande mobilitazione, stanno arrivando tante donne per la cerimonia luttuosa, è come una migrazione di donne in gruppi famigliari, alcune in sella a asini e muli, la maggior parte a piedi. Siamo controcorrente rispetto alla migrazione delle donne, sembra che vadano ad una festa più che ad un evento luttuoso, alcune fra le più giovani sono vestite in maniera elegante e vistosa e cavalcano con intorno “cortigiane pedestri”, forse vanno a proporsi come moglie dal vedovo che è rimasto solo con quattro bimbi piccoli, sembra di essere dentro un film in costume. Il viottolo diventa pista, poi si svolta a destra e si entra in una valle piena di cedri. Sono i famosi cedri dell’Atlante, questa è la foresta più meridionale, sono alberi giganti padroni assoluti di questa zona. La pista cammina lungo il corso del fiume che la taglia spesso facendoci fare tanti guadi, sul primo costruiamo un”ponte” poi si guada alla meglio. Su un viottolino stretto e ripido, alto sul fiume Tambone si cappotta, per fortuna senza farsi male, bisogna scaricare tutto il carico e portarlo in basso e già che ci siamo si mangia. I cedri sono sempre più grandi, mentre il cielo comincia a farsi minaccioso con grandi nuvole grigie, è da stamattina che stiamo salendo, siamo nuovamente molto alti, ogni tanto si incontrano delle case isolate. Sotto un cielo sempre più minaccioso attraversiamo terre colorate di rosso e di verde, arrivati in cima ad un passo la neve ritorna ad accompagnarci. Veniamo circondati da un gruppo di bimbi apparsi dal nulla, sono spauriti e eccitati hanno gli occhi sgranati e urlano, mi fanno impressione è la prima volta che vedo una cosa del genere sembrano drogati. Il capo avrà una decina di anni, dice di seguirlo ché la strada che ho preso porta nella selva e non a Midelt, insiste delirante che devo seguirlo, pianti, urla, capelli strappati, una scena inquietante e tristissima, arriva un ragazzino più grande sui quindici anni, con fare da bimbo bono e occhi da vile, anche lui ci vuole portare fuori via, lo blocco mentre cerca di aprire il tagrart. Fra scene deliranti andiamo avanti per più di mezzora poi si defilano. Sono rimasto turbato da questi bimbi dagli occhi sgranati in preda ad una specie di attacco epilettico, vorrei capire da cosa erano alterati. Continuiamo a salire, il vento ed il freddo aumentano la drammaticità del paesaggio, finalmente si vede sul culmine della via il villaggio di Anemzi, spoglio e austero è velato dai fumi bassi dei camini che contrastano la morsa di gelo, fra i ripetitivi parallelepipedi gialli delle case spicca e disturba una villa in costruzione con la classica architettura europea. Il sole sta tramontando e c’è una rasoiata di luce rosa molto bella, ci si avvicina un gruppo di uomini vestiti di nero, il più grasso si presenta come presidente del villaggio, sono curiosi e amichevoli, ci vogliono dare un passaggio con il pick up del “presidente” e ci danno un po’ di informazioni, molto confuse per la verità: la distanza da Agoudim varia dai quattro ai cinquantaquattro chilometri, ma sempre nella massima gentilezza. Ci salutiamo rifiutando gli inviti di ospitalità che singolarmente ognuno ci ha fatto e si prosegue. Qui la pista diventa strada asfaltata e inizia a scendere, un ultimo sguardo a ponente verso le vette già incontrate e poi la discesa che ci apre un nuovo magnifico scenario sulle catene del Masker e del Jbel Ayachi. Incontriamo due anziane donne che stanno rientrando in paese curve sotto un enorme fascio di legna, hanno il mento a mezzo metro dalla strada, ma trovano la forza di salutare per prime e di chiedere incuriosite chi siamo, da dove veniamo e se l’asserdoom è nostro. Scendiamo mentre cala la notte, l’idea è quella di fermarsi nel borgo di Bousserfin, che dovrebbe essere a sei chilometri da Anezmi, dove ci dovrebbe essere una gite. Arrivati in paese ci vengono incontro dei bimbi, gli chiedo della gite, mi indica in viottolo in mezzo al nulla che va verso il fiume, decido di proseguire sulla strada. Incontriamo una casa con un cartello di un associazione culturale, busso e mi apre una ragazza che ci offre ospitalità, è una famiglia solare e accettiamo di buon grado. Si scarica Tambone e si entra nella casa dove vivono due ragazze giovani con due bimbi piccoli, un ragazzo, la nonna e il nonno un tipo ganzo, sordo e ridaccione che è contentissimo della nostra presenza. Passiamo la serata guardando le foto del viaggio e dell’Elba che conservo come i preziosi di famiglia nel pc.
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La luce ci sveglia, ammiriamo l’alba dalla tenda, poi il sole ci scalda e si esce. Con la luce del giorno la quantità di fossili è ancora più impressionante, ce ne sono milioni con molte varianti per forma e dimensione. Passano pochi minuti e arrivano tre pastorelli, su queste montagne c’è sempre qualcuno anche nei luoghi più isolati, uno dei tre suona un tubo di plastica a mo’ di flauto, ci godiamo un po’ il posto e poi si carica e si parte. Un bimbo ci indica la giusta via, il viottolino diventa mulattiera quando incrociamo un pastore che ha in grembo un agnellino appena nato, dopo un’ora di discesa imbocchiamo la pista che ci porterà a Anefgou, seguendo il fiume. E’ già da una mezz’ora che la roccia di prevalenza è il granito, i fossili sono scomparsi, ma ci sono tanti cristalli di quarzo, i più appariscenti sono alcuni verdi. Incontriamo i primi cedri dell’Atlas e ci sono enormi coti rotondeggianti sparsi lungo i pendii ripidi delle montagne, il paesaggio è cambiato totalmente, è tutto molto più verde, vediamo una baita in perfetto stile alpino, e alcuni altri edifici simili, ma ancora nessuna persona. Il fondo valle è coltivato, nei pressi di Anefgou incontriamo le prime persone, il paese è mimetizzato con le rocce giallastre della montagna alle sue spalle, guadiamo il oued e entriamo nel villaggio sotto gli sguardi “corleonesi”degli schivi abitanti. Mi dirigo verso la scuola per chiedere qualche informazione e la giovane maestra mi affida a un bimbo che ci accompagna assieme al fratello più grande all’hotel cafè di famiglia, l’unica struttura “ricettiva” del paese. Si passa davanti ai prati del paese dove ci sono tutti gli uomini sdraiati al sole che dormicchiano. Hammed ci porta a casa, l’hotel è una stanza con dei materassini, il bagno è la stalla che ospiterà anche Tambone, scarichiamo il bagaglio e ci fermiamo, dopo una siesta mangereccia, the e uova, facciamo un giro del paese, le donne sono più belle del solito, sono ingioiellate ed hanno gi occhi truccati, le bimbe hanno le trecce e alcuni bimbi hanno una cresta punk. Ci sono tante persone, è un villaggio che non sembra per niente islamico, c’è un grande gruppo di donne e ragazze, almeno trenta, ma ci fanno capire che non siamo graditi, giriamo fra le case che qui hanno ampie scale esterne in legno, il cui spazio sotto viene usato come riparo. Facciamo un giro e si rientra, Hammed ci apre il negozio, compriamo sardine e biscotti e torniamo a casa. Come sempre si fa amicizia coi bimbi, Hadda, la piccola sorella di cinque anni è l’attrice protagonista della situazione, qui comanda la mamma, una donna autoritaria e di poche parole. Ci viene a fare visita un anziano barbuto con un tonacone bianco, ha un’aria contrariata ,vuole vedere i documenti e non gli torna che siamo arrivati con l’asserdoom (il mulo). È il responsabile del paese e mi fa scrivere i dati anagrafici su di un pezzo di cartone, poi lo sento brontolare con il padrone di casa, pochi minuti e arriva un ragazzo che si presenta come responsabile della polizia che mi richiede le stesse cose poi va via soddisfatto. È ormai buio quando il silenzio viene rotto bruscamente dal rumore di un’auto accompagnato dal suono ipnotico del canto urlato delle donne e poi il rumore di una grande corsa collettiva. Andiamo a vedere che succede, tutto il paese sta andando verso lo stesso punto, c’è un fuori strada parcheggiato, gli uomini incappucciati e le donne che cantano sbattendo la lingua, nella concitazione casco nel canale dell’acqua proprio mentre passa un feretro coperto da un telo bianco portato da uomini che risalgono da dietro il villaggio verso la casa dove si è radunato il paese. Gli uomini intonano un canto di cerimonia, sul tetto della casa e intorno ci sono centinaia di persone, i falò nelle viuzze rendono tutto molto suggestionante, vorrei fare delle foto, ma non me la sento, c’è un’atmosfera che è un misto di eccitazione e cerimonia liturgica. Ci raggiunge Hammed, anche lui è suggestionato da questa situazione, mi parla di un muto e di persone che hanno problemi, i canti luttuosi di una donna con un infante sulle spalle e gli sguardi ostili delle persone ci invitano a lasciare il luogo. Rientro con una grande curiosità per questo evento che non ho capito, ma che mi ha suggestionato. In tarda serata ci fa visita un altro pseudo poliziotto che ci dice che domani lo dobbiamo seguire al commissariato di un paese vicino perché non è normale che degli stranieri vadano in giro per cosi tanto tempo con un mulo, dopo una mezzora di risposte calme, alzo la voce e gli dico che io non vado con nessun poliziotto, come d’incanto si normalizza tutto, mi dicono che va tutto bene, mi chiedono scusa per il disturbo e mi dicono che domani posso andare dove voglio . Si viene a sapere cosa è successo: è morta una giovane donna incinta.
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Partiamo di buon’ora, la padrona di casa ci raccomanda prudenza e i suoi attendenti non si capacitano sul perché voglia passare dalla montagna invece che dalla pista di Imilchil, ma tutto sommato sono molto gentili, ci preparano una grande colazione e ci regalano un pane caldo. Appena partiti un grande falco bianco volteggia sopra le nostre teste, è una giornata bellissima il sole e l’assenza di vento fanno salire rapidamente la temperatura.Stamani Tambone non vuole andare, la prima ora è sempre una battaglia ma stavolta è proprio una guerra e spiegagli che l’omo è superiore alla bestia come mi dicevano i vecchi della Bonalaccia è una gran faticata. Dopo un paio di chilometri due donne che stanno lavorando nei campi mi invitano a compartire con loro la colazione, latte, pane e arance. Stanno zappando il terreno liberato dalla neve per prepararlo alla semina, nei campi si sono portati i figli più piccoli, la più piccina è una bambina di pochi mesi tutta imbacuccata nelle coperte e posata sul terreno sotto lo guardo vigile della sorella che avrà al massimo due anni. Ripassiamo davanti al villaggio semi deserto, dove una donna sta cocendo il pane, poi nel deserto appare in lontananza una bicicletta come un miraggio, che si rivela reale dopo qualche minuto, si ferma incuriosito a scambiare qualche parola sorpreso più di noi dell’incontro, poco prima del lago rincontro il bimbo di ieri sera oggi in compagnia di altri due colleghi che mi mostrano alcuni fossili molto belli. Arrivati al lago vediamo nel fango le nostre impronte e abbiamo un ulteriore conferma che non c’è né gite né villaggio di cui parlava la guida, sono segnalazioni che possono costare caro e mi confermano ancora una volta che tutte le informazioni vanno sempre verificate . Il lago è bellissimo, azzurro come il cielo con il riflesso delle vette innevate nelle acque immobili, ci fermiamo un po’ per goderci lo scenario immersi in un silenzio assoluto. Ripartiti dopo poco incontriamo qualche casa, ma sembrano tutte deserte, disabitate, la vegetazione è quasi assente. Continuiamo a salire, la pista è solo una piccola traccia che si mimetizza nel terreno cromaticamente uniforme, da una casa isolata ci viene incontro una donna con un bimbo sulle spalle, il piccolo è malato, ha la testa piena di bolle e pustole e il collo gonfio e pieno di ematomi, dagli occhi gonfi e lacrimosi si capisce che sta veramente male, la donna mi chiede qualcosa per curarlo una crema, delle pasticche, ma io non ho niente e soprattutto non sono un medico, non so cosa fare gli dico di andare ad Imilchil dove c’è una specie di ospedale, mi dice che c’è gia stata e gli hanno dato una crema ma non ha funzionato, la esorto a portare il bimbo giù ma non mi sembra di averla convinta. Il problema della sanità qui è enorme, i medici sono pochi e male attrezzati, non hanno i mezzi per spostarsi e anche se li avessero non possono lasciare scoperti i luoghi principali per andare a soccorrere le persone che vivono isolate, poi qui la gente è totalmente fatalista se uno si ammala e perché allah ha voluto così. La pista si divide in due, ma la mamma di prima ci insegue e ci indica la via per Midelt. Siamo dentro un grande deserto di pietra, a sinistra una montagna di rocce chiare a forma di semicerchio, non c’è pista, ma c’è un gregge e il pastore mi indica la via. Siamo su un grande altopiano circondato da montagne, quasi senza rendermene conto mi trovo a camminare dentro una grande necropoli con centinaia di tombe, sicuramente non è un cimitero mussulmano anche perché nelle vicinanze non c’è nessun paese, tante tombe a cassetta e alcune a tumulo, molto simili a quelle del Piano alle Sughere ma in uno spazio molto più esteso che si confonde in una distesa di pietre squadrate che mi fa venire in mente “le Mure”. È un contesto imponente e apocalittico che evoca epiche battaglie fra grandi eserciti, dimenticati protagonisti di un passato mai scritto. Ci sono tanti fossili soprattutto Ammoniti, la pista indicatami segue il corso secco dell’oued, sale lenta e sinuosa, allora decido di tagliare a sinistra salendo un monte di pietraie scure. Il percorso è ripido e instabile, Tambone scivola e si accascia sopra il tagrart, per fortuna un pastore in alto mi vede e mi viene incontro aiutandomi a ricaricare e indicandoci la via di Tirrhist. E’ quasi il tramonto, si sale sempre di più, il terreno ora è morbido, siamo sui tremila metri, c’è la neve intorno, in basso si vedono alcuni pastori nomadi che si stanno spostando verso i rifugi per la notte. Nella valle è scesa l’ombra, in alto c’è ancora il sole, incontriamo un bimbo pastore quasi in vetta, siamo sul culmine, è una montagna che ci regala un panorama maestoso, uso spesso questo termine, ma qui è assolutamente appropriato. Il bimbo solitario intona un canto berbero sul tramonto, anche a me viene di stonare un canto di gioia per glorificare la bellezza del posto. Siamo sul passo alto, le montagne che sembravano lontanissime sono quasi tutte sotto di noi, a ovest il plateau e il lago di Isli, a levante, sotto di noi, il villaggio di Tirrhist che sembra un presepe con la campagna coltivata a terrazzi che evocano le risaie del sud-est asiatico, poi apparentemente infinita la catena del Medio Atlante fino alle vette lontane del Masker. Siamo su una montagna di fossili di conchiglie, se si arrivava una mezza milionata di anni fa c’era anche da rimedia’ un cacciucchino, invece ci tocca mangia’ scatolette di tonno. Appena sotto la vetta a est c’è un rifugio, altri ripari si trovano più in basso, siamo a tremila metri e siamo già sottozero, metto Tambone a riparo nella “stalla” e poi si monta la tenda, ne blocco i bordi con lastre di fossili, e poi mi godo il panorama, lo scenario con le stelle che cominciano a illuminarsi e la neve che riflette le luce gelida della notte è di quelli indimenticabili.
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Dopo qualche giorno di sveglie all’alba una dormitona ci voleva, andiamo a piedi alla vicina Imilchil, così si riposa anche un po’ Tambone che sta mangiando felice l’erba sul bordo del lago.
Imilcil è la porta verso il deserto ed è famoso per il Mousseum (il mercato degli sposi) che si tiene qui a settembre, per l’occasione qui si radunano tutti i nomadi e gli abitanti dei villaggi alti, prima che la neve li isoli per l’inverno. il Mousseum è un occasione ottima per accoppiarsi per gli scapoli dei villaggi isolati. L’evento risale al periodo coloniale ed era stato istituito per aggiornare l’anagrafe, oggi è diventato un evento turistico, lo si capisce dai tanti alberghi, ora deserti, e dai mille richiami all’evento. Facciamo scorta di viveri e si rientra velocemente approfittando di un passaggio con un mitico Bedford rosso che sono la colonna portante dei trasporti in Marocco. Il camionista è un allegro vecchietto che parla francese, il camion ha due enormi tachimetri (uno è una sveglia modificata) che non funzionano e un interruttore da casa per le luci. Si prepara il bagaglio e si parte, salendo in direzione del lago di Isli la pista cammina in mezzo a questa pianura in quota, tutt’intorno montagne brulle e in alto la neve, si incontra un villaggio, ma è deserto, sono i villaggi dei nomadi che durante la stagione fredda vengono abbandonati, guardo meglio e una casa è abitata, forse sono i primi ritornati. Salendo incontriamo un bimbo pastore che pascola le sue pecore in un terreno apparentemente sterile. La strada sale costantemente anche se in maniera quasi impercettibile, la giornata è bellissima ma gelida e ora che sta andando giù il sole il freddo diventa intenso, il terreno è sterile e bagnato in pratica è fango tenuto assieme dal gelo, è quasi notte quando arriviamo al lago di Isli su cui si affacciano i picchi innevati e un deserto in quota, della piccola gite di cui parlava la guida non c’è traccia. È molto bello, ma il terreno è bagnato e precario, ricco di canaloni e smottamenti in caso di pioggia o neve può essere molto pericoloso e poi fa veramente tanto freddo, decido di tornare indietro e dormire in un posto più caldo e sicuro. Si Cammina a ritroso sotto una stellata che illumina la steppa per un paio di ore e poi si ritorna al castello solare, che si vedeva stranamente illuminato da qualche chilometro, sono arrivati un gruppo di fuoristradisti olandesi che hanno animato la struttura, c’è ancora una camera libera, quindi per stanotte si dorme fra le mura poi domattina si riparte per Isli e le grandi montagne.
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Sveglia all’alba, colazione, rifaccio il tagrart e si parte, stamani Tambone non va, la prima mezz’ora è una battaglia poi si stufa di fa’ sciopero e si comincia a camminare di buon passo. La campagna è dolce, siamo alti quest’altopiano in pieno inverno è coperto dalla neve ma è un ambiente molto più abitabile rispetto a quello dei giorni precedenti, lo si vede dalle case che sono molto più numerose e dalle mucche che qui possono vivere, la mucca è una risorsa enorme per una famiglia ,vuol dire latte tutti i giorni. Qui la terra è chiara e di conseguenza anche le case hanno lo stesso colore, nel terreno c’è tanto quarzo. Arrivati ad un villaggio vedo in alto la piccola scuola, mi fermo anche per chiedere informazioni e vengo accolto da un giovane maestro di una prima-terza elementare dove ogni bimbo al mattino porta un po’ di legna per la stufa. La scuola è mandata avanti da due ragazzi di città che ci invitano a prendere un the, sono contenti di parlare con qualcuno non del villaggio, loro sono di città, parlano arabo e non riescono a integrarsi con la gente Berbera dei villaggi, il vero problema è che qui nessuno sa l’arabo, è come se da noi il programma scolastico venisse svolto in bulgaro. Anche qui parliamo di Base Elba ai bimbi, in Berbero, in Arabo e in Francese. Ogni volta che riparto da una scuola mi sento pieno di energia positiva, per l’energia dei bimbi e per l’entusiasmo sognatore di questi ragazzi i maestrini senza calci in culo mandati al “fronte” dove nessuno vuole andare, insegnanti per passione e vocazione.
La strada prosegue salendo fra boschi di piccoli lecci, spesso lascio la via principale e taglio per le vie dai legnaioli, anche Tambone sembra divertirsi di più nei tornantini ripidi disegnati fra i tronchi. Il paesaggio cambia, ora siamo circondati da montagne nere, vicino ad un torrente incontro una carovana di muli carichi di legna mandata avanti da un gruppo di ragazze che mi invitano alla loro casa, ci sono tante donne sole in queste zone anche perché molti uomini vanno a lavorare in Europa o sulla costa atlantica marocchina, mandano avanti la “baracca” e sono molto più intraprendenti e spavalde delle donne dell’Alto Atlas.
Davanti ad un nuovo grande scenario di montagne grigie e verdi che si perdono fino ad incontrare picchi innevati scendiamo in direzione della valle dove a fianco del fiume incontreremo il Godron (l’asfalto) che ci porterà fino al lago di Tislit, anche qui tagliamo da un viottolino fra i pini d’aleppo che ricoprono queste montagne sassose risparmiando qualche chilometro di pista. Arrivati al torrente Tambone si fa una gran bevuta e poi non senza difficoltà riesco a fargli guadare il fiume. La strada sale ripidamente, a tornanti, sotto di noi una gola stretta e scura con tante cascatelle, mentre le montagne sopra sono brulle e di color grigio chiaro divise da linnee orizzontali di roccia gialla che sulla sommità formano delle grandi creste di roccia che fanno pensare a enormi dinosauri pietrificati. Si arriva al passo, lo sguardo si perde nelle rocce brulle che finiscono nel deserto, si sale ancora, ormai la vegetazione è praticamente scomparsa solo qualche cespuglio di “fienello”, fa freddo ed è riapparsa la neve. In alto a sinistra una postazione anti polisario, ci ricorda che siamo vicini alla zona dei saharawi , superiamo il secondo passo, ormai il paesaggio è quello desertico, scendiamo fra rocce brulle, il sole è ormai tramontato quando lo sguardo incontra il surreale il lago di Tisli. Vedere tanta acqua in mezzo al nulla sa di magia, scendiamo, mentre nell’assenza di vento cala la notte, sulla lastra d’acqua gelida e immobile si specchiano pallide la luna e la neve degli alti picchi circostanti. Ci fermiamo sui bordi del lago dove c’è un'unica struttura, un “castello solare” a 2275 metri. E’ un piccolo ostello a forma di kasbak con i pannelli solari sulle quattro torri d’angolo. Siamo gli unici ospiti, il castello è gestito da una signora anziana e da un po’ di attendenti tutti straniti da questo imprevisto arrivo notturno.
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Sveglia presto con l’alba, come sempre nelle case dei villaggi di montagna, facciamo colazione in compagnia delle due maestre delle scuole che abbiamo conosciuto ieri sera e poi andiamo a scuola per “Base Elba”. Spiego il progetto alla lavagna e tutti, bimbi e insegnanti, sono entusiasti dell’idea, appena raggiungerò Midelt dove penso di fermarmi qualche giorno per aggiornare testi e foto mi riprometto di far partire in maniera attiva questo progetto che lo “Scoglio” non ha ancora recepito bene. Accompagnati da Hammon e da Hammed andiamo a vedere le miniere di sale, è questa una zona ricca di minerali, c’è ferro e ci sono tantissimi cristalli compresa la tormalina nera che sembra la nostra. La miniera dista meno di un chilometro dal paese e ha diversi ingressi che si tuffano nella terra rossa, sono miniere collettive, che vuol dire che chi vuole può entrare ed estrarre sale minerale, che poi viene venduto nei souk dei villaggi per uso alimentare o come fertilizzante. È un posto pericolosissimo soprattutto per le misure di sicurezza inesistenti e per l‘attrezzatura dei minatori che scendono nel pozzo scalzi o in ciabatte, con una piccola torcia in mano. I pozzi sono praticamente verticali, con delle friabili scale che scendono giù ripide per un chilometro ,così mi è stato detto, io sono sceso solo per qualche metro poi mi hanno esortato e non proseguire. I cristalli di sale sono molto belli così come i fossili che qui si trovano numerosi. Lasciata la zona estrattiva attraversiamo una zona granitica ricca di pianelli coltivati per raggiungere una piccola cascata, dove incontriamo un gruppo di donne che stanno lavando la lana appena tosata. Ritornando verso il paese attraversiamo un grande appezzamento coltivato con i meli, dove spicca monumentale un grande noce. Qui incontriamo un anziano signore con le gambe mutilate che carponi stà zappando un orto, ha una faccia serena e ci racconta con l’aiuto di hammon di quando tanti anni fa è caduto dentro la miniera e da solo con la sola forza delle braccia è risalito fino alla superficie e ora con la sua zappa corta corta manda avanti il suo orto tutt’intorno al grande noce. Rientrato in paese cerco una corda per bloccare meglio la soma , il negoziante è steso al sole e senza spostarsi mi indica la bottega, come a dire “guarda da te se trovi quello che cerchi poi vieni qui, se no inshallah”. La corda non la trovo, in paese c’è una cote spianata in mezzo alla terra che funge da piazza dove quasi tutta la popolazione maschile adulta del villaggio sta dormicchiando sdraiata al sole, alcuni a pancia all’aria sembrano morti. Arriviamo a casa giusto in tempo per mangiarsi un galletto ex ruspante, poi nonostante l’insistenza a restare di tutta la famiglia e delle insegnanti ci prepariamo alla partenza.
Partiamo con i due Tagrart cuciti fra loro per avere il carico più stabile, salutiamo e si parte attraversando il paese dove ormai tutti ci conoscono, alla fine del villaggio veniamo raggiunti da Hamida che ci porta due pani appena sfornati. Dobbiamo prendere la via del fiume perché sul passo c’è troppa neve, facciamo la prima parte del tragitto in compagnia di una famiglia che è in marcia verso un souk , c’è un mulo con in sella un anziano, il capo famiglia è a piedi davanti a tutti con in mano un grande bollitore, poi ci sono un ragazzo che controlla il mulo, la nonna con una bimba piccola fasciata sulla schiena, la mamma e un bimbetto. Lungo il viottolo che segue all’incirca il percorso del torrente si incontrano tante rocce sferiche di granito e di minerale di ferro, alcune sono veramente grandi e tanti cristalli di quarzo, è come se il Capanne e Punta Calamita si fossero impastati insieme, c’è un punto vicino al torrente che sembra il Vallone co’ le Coti della Tavola. Tambone è una scheggia, passare dall’asino al mulo è stata un’ottima scelta. Camminiamo vicino al fiume e ci sono tanti pioppi, dopo una quindicina di chilometri incontriamo il primo villaggio, arroccato sopra il fiume, deviamo a destra lasciando il corso d’acqua principale e dopo aver salito una collina riscendiamo verso il torrente dove dobbiamo guadare proprio vicino a una cascatella. Il torrente è gonfio e la gola in alcuni tratti è molto stretta , sul secondo guado incontriamo, due donne giovani sul mulo che ci danno conferma che siamo sulla giusta via, poco dopo arriva un gruppone di fuoristrada, sono americani e ci fanno le foto dai loro “gipponi”. Il tempo si fa sempre più grigio e il percorso sempre più impegnativo, bisogna passare un terzo guado, qui c’è tanta acqua e per portare Tambone di là bisogna bagnarsi fino alle ginocchia, per fortuna che come succede sempre, arriva l’uomo della provvidenza, questa volta nei panni di un ragazzo su di un mulo bianco che fasciato nel suo jallabar sembra un cavaliere. “Provvidenza” prende Tambone per le redini e lo porta sull‘altra sponda poi porta Serena e infine da un passaggio anche a me. Tuona, Provvidenza ci dice di lasciare la via del fiume e di prendere la via alta, salendo si vedono sotto di noi gole strette e piccoli laghi, in alto la neve, si vede il villaggio mentre il tramonto dipinge tutto di rosso. Provvidenza come da copione ci invita a casa e noi naturalmente accettiamo, mentre stiamo per raggiungere la casa arriva un fuoristrada è Hammon di Anergui, di rientro da Imilcil, ci salutiamo e poi porto Tambone nella stalla per il meritato riposo. La casa è molto grande, ci sono due stanze con la stufa e una cucina con il focolare, ci ospitano in una stanza con una stufa al centro e il tetto fatto di legno di ginepro. Senza mulo e cappottone Provvidenza si rivela un ragazzino, qui comanda la sorella maggiore, mamma di quattro bei bimbi. Arriva il cugino che ogni cosa che vede la indica e dice “comme s’appelle ça?” Per sapere come si dice in italiano, arrivano i vicini per farsi le foto e poi ci mangiamo il secondo pollo di giornata sgozzato, spennato e cotto nel giro di mezzora. Anche qui non c’è energia elettrica quindi si va a letto presto preparando la cuccia accanto alla stufa.
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© 2024 Elba e Umberto