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E’Pasqua, riaccatizzo la brace che è sopravvissuta al gelo dello notte, è una bella giornata, facciamo una soma fatta bene, e si parte. Tambone va, la valle è bellissima, con le gole scure e le vette tutt’intorno innevate, quasi in vetta un contadino ara con due muli dove ieri nevicava, ci offre the e pranzo, ma proseguiamo. Si vedono dall’alto le gole in direzione della Cattedral.
Siamo in vetta è bello ma fa freddo, il grande plateau si sta liberando dalla neve e i prati vengono fuori. I pastori nomadi sono in gran fermento, stanno preparando i recinti per le greggi, ci sono chilometri di prati acquitrinosi per la neve appena sciolta dove si muovono lenti cavalli e cicogne, ci sono tanti greggi di pecore e capre, controllati pigramente da canoni bonari, qui c’è tanta erba quindi sono numerose le pecore e ci sono tanti agnellini a cui in questo periodo va molto meglio che da noi. Il plateau si estende per diversi chilometri e sarà abitato per tutta la bella stagione dai pastori nomadi, sono figure affascinanti, silenziosi e guardinghi controllano dai picchi rocciosi avvolti in abiti da profeti biblici, sembrano custodi di un mondo senza tempo dove la conoscenza degli elementi naturali, il fatalismo e la fede si alleano per sopravvivere a una natura che può essere assassina. Circondati da picchi che sfiorano i 4000 metri arriviamo al bivio per Imilchil, il sole cala e arriva il gelo, le case più alte non sono abitate, poco più in basso ci sono tanti meli, un ragazzo ci viene incontro e ci offre ospitalità, si chiama Hammon. Scendiamo verso il paese, man mano che si avanza siamo sempre di più. Hammon mi dice che passano tutti i giorni i turisti, oggi ne sono passati tre con un fuoristrada. Il paese è circondato da coltivazioni di meli, in mezzo ai campi ogni tanto spuntano delle grosse coti tonde di granito. C’è profumo di legna che arde, la casa che ci ospiterà è all’inizio del paese proprio vicino alla scuola. Tutto il paese viene a vedere gli “stranieri col mulo”. La casa è una casa di donne, tante, tutte giovani, con numerosi bimbi piccoli. Come sempre siamo accolti nella stanza più bella, con la stufa, il pavimento di terra e sul tetto c’è un lucernario con il filo spinato per non fare entrare gli animali. Oltre Hammon e un paio di ragazzini ci sono solo donne, è così lontano il mondo di Imlil dove le donne non si vedono. Sono belle, alcune con la pelle chiara, alcune scura, ci offrono una sostanziosa merenda, saremo almeno cinquanta nella stanza, poi piano piano rimaniamo noi, Hammon con moglie e figli e le sue tre sorelle che vivono qui da sole. Ceniamo con il riso, ci raggiungono anche le maestre della scuola che sono state adottate da questa famiglia solare e generosa. Hamida, la sorella più grande, sogna di venire a lavorare in italia ma vorrebbe anche trasformare la casa in un piccolo ostello turistico insieme al fratello, è una ragazza sveglia e capace aiuta le maestre insegnando loro il tamazight l’idioma locale, l’unica lingua che parla la maggior parte degli abitanti di Tasfref, indispensabile per comunicare coi bimbi. Alla fine della bella serata si dorme con la famiglia nella stanza della stufa.
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TagDiario di viaggio
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Il tempo è bello le montagne tutt’intorno sono bianche ed il fiume è sempre più grande, Hammon mi consiglia di attendere ancora un giorno, ma io voglio partire, carichiamo Tambone e poi ci salutiamo, Anargui, la sua Gente e la famiglia Chrifi rimaranno ben impresse nei ricordi positivi di questo viaggio.
Il tempo è variabile si alternano nuvoloni e squarci di sereno, il mulo si ribella al carico, abbiamo troppo volume due balle di paglia sono troppe sbilanciano il carico, sono passati pochi minuti dalla partenza e sono già fermo, sono circondato da persone tutti sanno del viaggio e lo giudicano un impresa enorme, regalo una balla di fieno e ripartiamo, il passo è lento, il mulo è giovane e si deve abituare e poi il carico è fatto male e risistemarlo lungo la strada è sempre complicato.
Salendo il panorama è molto ampio si dominano i duuar della valle e la gola che si estende verso nord, sul pendio ci sono solo dei ragazzi pastori con le capre, ci sono delle belle rocce compatte e panoramiche che assomigliamo un po’ alla “Stretta”, decido di montare la tenda qui. Facciamo il fuoco con la profumata legna di ginepro e poi ci godiamo lo spettacolo della luna piena che ogni tanto fa capolino da dietro le nuvole arruffate e minacciose, disegnando figure cangianti a volte divertenti e a volte inquietanti. La notte è fredda sicuramente ci sono diversi gradi sotto zero ma il vento gelido tiene lontana la minaccia della neve.
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Durante la notte ha nevicato, andiamo a Beni Mellal con il vecchio Toyota Land Cruiser immatricolato italiano di Hammon, così cambio un po’ di soldi visto che per acquistare Tambone sono rimasto a secco. Equipaggio: 3 biker arrivati ieri, una signora accompagnata da “Eta Beta” (un tipo con una torcia collegata con un cavo a una batteria che sembra uscito dalle strisce dell’Eternauta), il fratello del “capo”, Hammon e noi due. Partiamo che sono quasi le otto, lungo la salita inizia a nevicare, raggiunto il plateau completamente innevato i biker, due spagnoli e un’ inglese, decidono di proseguire in macchina fino all’inizio dell’asfalto, fra le rocce vediamo i nomadi imperterriti sotto la neve, arriviamo al bivio dove si incrocia la pista per Imilchil che inschallah percorrerò domani. Dopo un paio di ore e mezzo la pista sterrata circondata da ginepri innevati incontra l’asfalto e i biker scendono. È uscito il sole e la temperatura si alza velocemente, ci fermiamo a Ouaouizarth dove scende la signora, poi risaliamo una grande salita e dopo la pianura coltivata che poco a poco comincia a diventare la periferia di Beni Mellal . Si procede a andamento lento, Hammon va sempre alla stessa velocità, pista di montagna o stradone asfaltato non fa differenza. Si arriva in città verso mezzogiorno, ci sono circa due ore prima di ripartire, banca per cambiare i soldi, un bar dove caricare le batterie, compro una borsa, capatina ad internet, compro un vassoio di paste e poi appuntamento davanti alla grande moschea e si riparte. Al ritorno guido io, rifacciamo sosta a Ouaouizarth, dove si cambia un po’ equipaggio. Riparto e poco dopo incrociamo un pick-up finito in una profonda scarpata. Il mezzo è mal concio, ma il conducente è vivo, si è radunata tanta gente nell’attesa dell’ambulanza. Ripartiamo, lungo la strada ci fermano più volte chiedendoci informazioni dell’incidente, sono i parenti. Inizia la pista, c’è tanto fango e poi neve, fa freddo e nevica anche dentro la macchina, sul plateau gli incredibili nomadi che ci chiedono notizie sul meteo, sono stati i primi a salire con le greggi e più giorni di freddo potrebbero creare problemi ai tanti agnellini. E’ormai notte fonda quando arriviamo a casa.
Ceniamo insieme a una famiglia marocchina di città venuta a passare le vacanze sull’Atlas e rimasta bloccata per il maltempo ad Anergui.
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Piove, siamo alloggiati su un piccola collina proprio sopra il souk dove la gente ha acceso tanti piccoli falò per scaldarsi. Sembra quasi deserto, ma comunque ci sono parcheggiati un centinaio di animali fra asini e muli. C’è una zona con tante persone, è quella dove si contratta la vendita di pecore e capre. Facciamo colazione e poi insieme a Hammon che oggi ha indosso uno Jalabbar in perfetto stile souk scendiamo al mercato. Nonostante piova le persone stanno tranquillamente sotto l’acqua senza impermeabile, nella zona del mercato delle capre ci sono i pastori con i loro piccolissimi greggi fra le braccia che attendono i compratori, sembra tutto fermo ma in realtà è una continua trattativa e ogni tanto si vede andar via qualcuno con la capra. Appena più in basso sotto una grande tettoia, unica struttura sopravvissuta ai detriti di un’alluvione, c’è il macello dove con cura certosina vengono macellati capre e montoni, è un souk lento e sereno nessuno si agita per il disagio della pioggia e del vento che ogni tanto fa volare gli approssimativi teloni di plastica e di stoffa che proteggono i banchini e le merci. Entriamo nel forno anche per scaldarci un po’, c’è una grande pila di pani crudi divisi con cenci che vengono passati da una donna su una pala al fornaio che li buca con una forchetta e poi li mette nel forno, ne cuoce una quindicina contemporaneamente. Il forno è aperto solo il giorno del souk o in caso di ricorrenze, perché qui il pane se lo fanno tutti in casa. La cosa che mi colpisce di più è il gran numero di persone con la pelle scura, sembra di essere nel cuore dell’Africa. Le donne sono molto più numerose rispetto agli altri souk visti, sono vestite con colori sgargianti e sono molto più intraprendenti, si vedono anche coppie di uomini e donne. Nell’attesa che ci portino a visionare i muli, facciamo la spesa per i prossimi giorni, poi aspettiamo con Hammon sorseggiando un the in uno dei piccoli bar del souk. Hammon è un personaggio a Anergui, lo conoscono tutti e si vede che è “un’autorità” anche perché è uno dei responsabili di un’associazione che ha raccolto dei fondi con cui ha fatto opere di bene per la comunità comprando l’unico trattore della valle e costruendo un piccolo ponte. Nell’attesa assistiamo anche all’estrazione di un dente alla berbera: il tutto dura una trentina di secondi, il paziente si siede su un sasso e il dentista da dietro con una mano gli tiene la testa e con l’altra estrae il dente con una pinza sicuramente multiuso. Mentre siamo nella bottega di un fabbro finalmente arrivano i muli, seguendo il consiglio del nostro amico scegliamo quello più giovane, è un bel mulo, ha due anni, l’occhio un po’ schizzato e il carattere ribelle e da oggi si chiama Tambone. Anche questo sembra un percorso dalla piana delle Paglicce, alla coste di Segagnana fino alla vetta del Tambone. Lo portiamo a ferrare, è la prima volta che viene ferrato alle zampe posteriori e non gradisce, infatti l’operazione risulta molto lunga e soprattutto a rischio calcio. Con le scarpe nuove gli monto in sella per portarlo a casa e dopo un paio di figure da bischero (mi arrampico su una teppa e poi prendo la via sbagliata), imbocco la via di casa e vado a parcheggiare Tambone accanto a Segagnana.
Dopo pranzo scendiamo nuovamente al souk con tutta la famiglia, c’è un venditore di mobili (tre) che è un po’ l’Ikea di Anergui, che attira l’attenzione di Zora. Acquisto l’orzo e altra paglia, poi l’appuntamento con il custode del marabutto. Andiamo a vedere la struttura ricca di simboli dipinti di cui ignoro il significato. Grazie a Hammon la spesa ci viene portata a casa e noi andiamo con Hammed a fare un giro nei duuar bassi. Attraversiamo il torrente e andiamo a vedere due duuar caratterizzati da grandi granai collettivi. Ritorniamo dalla montagna, il viottolino si snoda fra grandi coti di granito scure e rocce verdi, siamo contro corrente rispetto al flusso delle persone che rientrano dal souk a piedi e con i muli, ci salutano tutti è da stamani che vediamo le stesse facce. Il sentiero attraversa terre grigio-verde e poi rosse per poi precipitare verso Anergui. Un ultimo saluto a Segagnana prima che la venga a prendere il suo nuovo padrone, nei prossimi mesi farà sicuramente una vita più sedentaria e la cosa credo la aggradi .
Passiamo la serata con la famiglia Chrifi, Hammon ci spiega che nella valle ci sono tante persone con i tratti somatici dell’Africa nera perché in passato i berberi della valle scendevano fino al Ciad ed al Mali per razziare schiavi che poi venivano fatti lavorare nei campi, poi con il tempo hanno acquistato la libertà e sono rimasti qui come abitanti. Ci racconta che lui è il discendente del famoso Marabutto di cui oggi abbiamo visitato il santuario e che il su babbo (il marabutto in carica) è un guaritore, mi dice anche che il marabutto di Zawyat Ahansal era uno dei figli del marabutto “originario” di Anergui e mi conferma che qui la gente è ancora molto legata ai propri santi e l’anniversario del “Santo” è la festa più importante del villaggio. Mi dice che domani il tempo sarà brutto e che non è il caso di salire verso la montagna innevata, mentre la via nella gola è chiusa perchè il fiume ha straripato.
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Mi sveglio che è giorno da un bel po’, il tempo non è gran che ma c’è vento e Serena ne approfitta per fare il bucato, mentre io vado a vedere il fiume che nel frattempo è gonfiato ancora e ha invaso ancora di più la pista. Mi accorgo che all’ingresso del paese, sul lato opposto del fiume c’è un’altra gite ma è rimasta isolata per la piena. Il grano è verde ma comincia a avere le spighe, in alto ci sono i resti di un grande forte francese e tutt’intorno piccoli duuar dominati dai grandi granai collettivi. Ma la struttura che cattura di più l’attenzione è il grande “santuario” del marabutto, molto più grande di quello visto a Zawyat Ahansal è attaccato a una piccola moschea, è il più imponente fra quelli visti finora e mi fa capire ancora di più che in queste valli l’Islam dei “barba” (così vengono chiamati dai berberi delle valli i rigorosi mussulmani arabi delle moschee) è molto lontano. Il culto e le feste legati a questi santi non riconosciuti è quanto mai vivo. Vado in cerca del mangiare per l’asino, orzo non se ne trova perché in questo periodo è merce rara, bisogna attendere il souk di domani. Faccio un giro fra le case nei campi alla ricerca della paglia e incontro tante persone gentili, ma paglia non ne trovo, alla fine torno nella zona del souk e riesco a trovare una balla di paglia, la metto in due sacchi e torno verso “casa”. Segagnana è proprio messa male, ieri ho accennato a Hammon che voglio cambiare animale, lui mi ha detto che domani mi da una mano per l’acquisto al souk, oggi non c’è è andato alla “ville” a prendere i figli più grandi perché domani è festa, è l’anniversario del profeta e a scuola non si va fino a lunedì, non ci incastra niente ma coincide proprio con la nostra Pasqua. Il tempo è diventato brutto, inizia a piovere e ne approfitto per scrivere un po’. La serata la passiamo con tutta la famiglia davanti a un gran tajine è un’ottima occasione per avere informazioni e per mettersi d’accordo per il souk di domani.
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Mi sveglio che è già giorno, c’è ancora la brace, una raccatizzata e il foco ripiglia, per rimettermi in moto una scaldata fa sempre bono. Colazione, si prepara il tagrart e mentre si sta per partire arriva un gregge di capre condotto da un bimbo, la mamma e la sorella. Il bimbo ci viene subito a chiedere se abbiamo bisogno di qualcosa e se vogliamo acqua, gli regaliamo un barattolo di miele che qui è apprezzato molto. Le capre sopra il ponte si spostano velocemente sul ripido pendio nel lato destro della valle, per ricondurle verso la strada la mamma sale come una scalatrice più in alto delle capre, mentre dal lato sinistro del fiume, che nel frattempo abbiamo guadato, la ragazzina con mira da cecchino, con una fionda riporta le capre scese più in basso sulla giusta via. La pista sale scavata nella roccia, la carreggiata per noi è ampia, ma per un 4 x 4 è appena sufficiente, se si incrociano due macchine qui è un problema serio. La valle ora è più larga e le montagne sopra di noi sono molto alte, rimane comunque una zona troppo aspra per essere abitata, solo molto più in alto su un piccolo altopiano si vede un duuar con delle costruzioni che sembrano imponenti. Il fiume si sta gonfiando sempre di più e il suono delle sue acque domina nella valle. Dopo un’ora di cammino il sentiero si abbassa verso il greto del torrente dove facciamo il secondo incontro della giornata. Ci sono dei ragazzini a torso nudo che giocano in un’ansa del oued, fa molto caldo e verrebbe voglia di fare il bagno. I bimbi sono parte di una numerosa famiglia che è scesa al fiume per lavare i panni, ci facciamo un po’ di foto e a malincuore decliniamo l’invito a pranzare insieme, la strada è molto lunga e Segagnana oggi ha un passo veramente lento. La via è ombreggiata da grandi lecci che insieme al vento fresco che scende nella valle rende la temperatura ideale per camminare. Il sentiero fiancheggia sempre il fiume in un continuo saliscendi sempre con pendenze dolci. È ormai pomeriggio quando sentiamo rumore di motore, dalla curva esce un quad e poi subito altri due. Sono tre marocchini di Casablanca che stanno facendo un giro fra il deserto e l’Atlante, sono distanti anni luce dai berberi dell’Atlas: sono grassi, vestiti con tute di pelle da motociclista e hanno una riserva di birre fresche nei loro mezzi. Scambiamo qualche chiacchiera e poi, dopo le immancabili foto, ci salutiamo. Mentre si allontanano nella polvere ho la sensazione che siamo più marocchini noi di loro. Il panorama è sempre più bello anche perché c’è una luce favolosa, ora la vegetazione è più arida, ci sono dei grandi cuscini di piante grasse e cespugli spinosi. All’improvviso arriva un gregge di capre che assalta la vegetazione con una voracità spaventosa, e mi rendo conto di quanto sia importante il costante controllo dei pastori. Se un gregge come questo entrasse in un coltivo, in pochissimo tempo farebbe tabula rasa del sostentamento di una famiglia. Il fiume si gonfia sempre di più, quando la pista scorre bassa si ha la sensazione che possa entrare nella strada da un momento all’altro. Ogni tanto si incontrano dei ponti di legno e fango che attraversano il fiume da cui partono degli incredibili viottoli quasi scolpiti nelle imponenti ma fragili rocce delle montagne e conducono a improbabili insediamenti che sono in pratica delle grotte. Sembra di essere in una valle preistorica, ma in realtà in zone così impervie le grotte sono il luogo migliore e più sicuro da abitare. La gola sembra infinita, è sempre più bella, ma Segagnana è sempre più lenta e ormai si sta facendo sera, manca poco ad Anargui e decido di proseguire lasciando alle spalle una grotta sopraelevata dove avremmo potuto dormire. Sulle ultime luci della giornata l’incontro più incredibile: un uomo sta arando un fazzoletto di terra leggermente più in alto del fiume, sul lato opposto della pista. È completamente isolato, alle spalle un’altissima parete quasi verticale, con una grotta in fondo dove vive con la sua compagna e almeno due bimbi piccoli che sono nel campo con lui. Ci salutiamo dalle sponde opposte e proseguiamo la marcia, mentre la donna risale una fenditura della montagna per andare a recuperare le capre disperse fra l’ardita vegetazione. È ormai buio quando percorriamo l’ultimo tratto, il torrente comincia a invadere i tratti più bassi della pista ed è un bel sollievo quando la strada si allontana dal oued. È un panorama di grande suggestione con le vette innevate illuminate dalla luna quasi piena, che senza la minaccia del fiume gonfio ci godiamo appieno. Finalmente arriviamo ad Anargui, ci sono grandi case senza illuminazione e campi di grano poi incontriamo un grande marabutto e poco dopo entriamo nella “piazza del souk”, un ragazzo che ci accompagna fino alla gite Chrifi dove ci accoglie Hammon con una zuppa calda e un hamman quanto mai gradito. Domani bisogna fermarsi di nuovo, Segagnana non ce la fa più, voglio comprare un mulo anche perché dobbiamo fare dei passi impegnativi e il nostro ritmo è troppo lento, comunque a questo ci penseremo domani.
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Partiamo che è ancora buio, intorno alle 6,30 fa giorno, dai viottolini vediamo scendere i bimbi che vanno a scuola, si incontrano sul viottolo più largo e poi proseguono insieme, prima di arrivare a scuola devono percorrere ancora sei o sette chilometri, mi vengono in mente i racconti di chi andava a scuola a piedi da Pomonte a Marciana, mi sembravano racconti epici, ora mi sembra normale, capisco anche la voglia e l’entusiasmo di andare a scuola legato sì alla voglia di apprendere, ma anche dal risparmiarsi le fatiche di una mattinata di lavoro. Vediamo sorgere il sole dalle vette innevate circondati da scenari naturali vasti e monumentali, montagne innevate, torrenti gonfi e decine di valli che si susseguono come infinite. L’ultima parte del sentiero sale tra il vento e fiancheggia una serie di grotte che fanno pensare a insediamenti preistorici, poi, quasi sul culmine ritornano i ginepri qui più affascinanti che mai per le forme contorte che li rendono simili a gigantesche ogliere di legno bianco, vorrei parlare con questi alberi dalle forme magiche ed ascoltare racconti di tempeste di vento, alluvioni e frane.
Il culmine è stranissimo, la vetta della Cattedral è un insieme di grandi ciottoloni quasi sferici, come tante bocce sembra di essere sul bordo di un fiume e invece siamo in cima a una montagna, l’orogenesi dell’Atlante è spettacolare a volte le rocce hanno forme “didattiche” e si intuisce bene cosa può essere successo, a volte sono stupefacenti.
Fra ginepri “animati”e “sfere ”di pietra ci avviciniamo alla “Facciata” una parete di oltre 600 metri a picco sulla valle, il progettista del viottolo non so chi sia ma è un mio idolo, ci ha portato su una specie di pulpito di pietra affacciato nel vuoto.
Questo è un vero sentiero escursionistico, nel rispetto della natura, non sono stati tagliati alberi, non ci sono ringhiere né staccionate, né cartelli. Ha toccato i punti più belli e interessanti, (punti panoramici, emergenze geologiche fossili, alberi monumentali) con un tracciato sicuro e dalle pendenze accessibili (sentiero escursionistico, non per merendai). Torniamo a valle, do il convio alla bestia, si carica e si parte, sembra tutto regolare ma dopo nemmeno un paio di chilometri l’asino comincia a tentennare poi s’affloscia come un polpo e un si move più. Si scarica il bagaglio poi a fatica si porta la bestia scarica all’ombra. Dopo un’oretta provo a vedere se va, gli monto in groppa ma non va, allora decido di tornare indietro per cercare un altro animale, Serena prova a salire in groppa e la bestia parte tranquilla al trotterello, allora ricambio programma e decido di partire lungo la gola per Anargui. Il viottolo si snoda stretto e alto lungo una gola stretta e profonda scavata dal torrente, è tutto imponente e precario. Le rocce sono rossastre, stratificate, piegate e spezzate in tutte le direzioni, il corso d’acqua in basso è sempre più gonfio. Qui la natura è padrona e l’uomo intruso, infatti non c’è nessun insediamento. Comincia a scurire, il sentiero scende, trovo una grotta e decido che ci fermiamo qui, il posto è bello la grotta è alta una trentina di metri sul fiume, davanti a un pino, intorno c‘è per fare un po’ di legna, stanotte si dorme in sacco a pelo vicino al foco. C’è parecchia legna secca, ne faccio un po’ di fasci così si alimenta un bel foco che produce una gran brace a cui le scatolette di tonno e sardine non fanno certo onore. È una bella serata, c’è la grotta, il foco e la luna quasi piena e il ciuco che all’orzo preferisce le spine dei rami secchi.
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Ancora una giornata bellissima, il cielo è azzurro intenso senza nemmeno una nuvola. La valle di Tabant è molto bella incastonata fra alte montagne dalle vette innevate, ha una grande pianura tutta coltivata e alterna specchi di terreno verdi ad altri arati, al centro scorre un torrente e tutto intorno canali d’irrigazione che ora sono particolarmente ricchi d’acqua perché la neve delle montagne si sta sciogliendo. All’ingresso della valle c’è una collina che assomiglia a un cono rovesciato, sulla sommità un monumentale granaio fortificato che è un po’ il simbolo di questa zona, è unico perché di forma circolare, era una struttura comunitaria dove si accumulavano i raccolti per difenderli in caso di assalto. Decidiamo di salire, per arrivare bisogna attraversare vari corsi d’acqua sopra dei ponticelli di tronchi. Salendo la fortezza somiglia tantissimo al Volterraio e anche le rocce lo ricordano. In vetta il panorama è veramente superbo, si vede la strada che abbiamo fatto ieri e la valle che dovremmo percorrere nei prossimi giorni. Il Volterraio marocchino è fatto di terra e nonostante la forma circolare l’abbia reso più resistente al vento rispetto alle tradizionali strutture a base quadrata, non raggiunge i due secoli di storia. Seduto di fianco alla porta del granaio c’è un anziano signore, recita qualcosa scorrendo tra le mani una specie di rosario di legno, è piccolo piccolo ha la barba bianca ed è vestito di blu. Mi fa festa e mi vuole toccare, mi rendo conto che è praticamente cieco, fa per aprire la porta del granaio, ma gli dico di aspettare perché non sono solo. Arrivata Serena le fa una gran festa e poi entriamo nel granaio, c’è un giaciglio, forse lui dorme proprio qui, facciamo un giro del granaio e saliamo su una scala scavata in un tronco fino al tetto di terra. È un posto eccezionale, la collina non è altissima rispetto al piano della campagna, che comunque è superiore ai 1850 metri, saranno quattrocento metri, ma l’orizzonte è veramente molto ampio si ha la sensazione di essere su un faro che controlla il più importante valico di montagna della zona. Probabilmente in estate è un luogo visitato quotidianamente da turisti, ma in questo periodo ci siamo solo noi e fa un certo effetto lasciare quest’uomo da solo. Scendiamo dall’altro lato e andiamo a fare un giro per la campagna, nella zona più paludosa gli uomini tagliano i giunchi, ci sono tantissime cicogne che fanno i nidi sugli alberi più grandi e sopra i muri più alti, sono parte armonica del paesaggio come i contadini, gli asini e le mucche e si muovono tranquillamente fra i coltivi. Torniamo nel paese, mi hanno detto che c’è internet, c’è tanto bel materiale da spedire, in realtà non c’è un internet point, ma il gestore di una piccola fotocopieria che ha un portatile con la connessione, però oggi non va, quindi decido di andarmi a fare i capelli in una microscopica barberia. Il tempo è stabile, anche il padrone di casa ci dice che durerà, domani voglio provare a salire fino alla vetta del Igoudamen una montagna di 3520 metri che domina dall’alto questa valle. |
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La giornata è ancora più bella di quella precedente, l’ideale per fare una lunga marcia fino a Tabant, che prevede il superamento di un impegnativo passo. Scendiamo la valle fiancheggiando il fiume, lungo la strada ci sono diversi duuar su entrambi i lati del fiume, caratterizzati da grandi Kasbah a testimonianza della grande importanza strategica di questa valle, unica via d’accesso verso le fertili pianure della regione di Marrakech. Lungo la via incontriamo un gregge magistralmente condotto da un minuto bimbo pastore che avrà non più di cinque anni, ma che con portamento da adulto conduce sicuro il suo gregge. Camminiamo insieme fino al guado e poi continuiamo a scendere fra paesaggi che acquistano colori e forme più familiari, i pendii sono ricoperti da grandi pini d’aleppo e lecci e le montagne ricordano i colori delle montagne corse nella zona del Calanches. La pista si sta trasformando in strada, ci sono operai e un paio di ruspe che stanno allargando la via, ce ne avevano parlato alla scuola ieri con entusiasmo perché alla fine dei lavori arriverà anche internet. È il progresso che avanza con i suoi pro e i suoi contro, sono comunque contento di aver visto queste valli senza mezzi a motore. Mentre stiamo per iniziare l’ascesa verso il passo un’immagine forte “dell’incontro di due epoche”: un anziano contadino con un aratro di legno trainato da due asini sta arando un terreno vicino al fiume, mentre dei tecnici giunti qui con un’auto studiano su una carta la nuova strada, incrocio lo sguardo del “capo” e vedo in lui la consapevolezza che quest’opera cancellerà per sempre queste immagini medioevali. Segagnana è in crisi tenta più volte di tornare indietro e devo continuamente urlargli “HERRA!!” per non farla piantare. Tutti i berberi comandano le loro bestie così, ma io lo dico all’elbana e tutti ridono e mi pigliano pel culo, comunque fra un paesaggio sempre più maestoso e spoglio raggiungiamo il passo sotto l’occhio curioso dei pochi pastori. Arrivati sulla vetta nel vento gelido ci attende una pattuglia di gendarmi che controlla il bivio, qui la pista finisce e incrocia la strada che a destra scende verso Tabant, mentre a sinistra porta a Azilal il più grande centro della zona. Ci chiedono i passaporti e ci fanno un sacco di domande, mi chiedono anche il nome del mi babbo e della mi mamma e nel modulo mezzo di trasporto scrivono asino, sono incuriositi e anche affascinati dalla nostra “impresa” e ci raccomandano attenzione e prudenza. Ci attendono ancora quindici chilometri di cammino, ma tutti in discesa e su strada. Dopo qualche chilometro incontriamo tre escursionisti in montain bike, primo incontro “occidentale” da diversi giorni. Poi iniziano i piccoli villaggi, sulla destra si apre una campagna coltivata, mentre a sinistra una alta e impervia parete di roccia da dove escono intrepidi ginepri e ardite palme nane che mi ricordano le pareti di calcare fra Nisportino e Monte Grosso anche se qui è tutto molto più grande, e ogni tanto si vede saltare qualche scoiattolo di barberina. Arriviamo a Bou Goumez, è un bel villaggio, ma dopo l’esperienza vissuta negli integri duuar incontrati da Imi Nifri a qui, sembra un po’ finto. Questo è il punto di partenza per l’escursioni sul Monte M’Goun, seconda vetta in Marocco dopo il Toubcal, ci sono scritte in francese e negozi di souvenir e tutti dicono Bonjour Bonjour. Sicuramente il turismo escursionistico ha portato dei grossi benefici alle persone, però sono sempre più consapevole che leva spontaneità e dignità alla gente. Penso che la sfida sia quella di sviluppare il turismo escursionistico conservando e valorizzando la storia e le caratteristiche di ogni piccola comunità, deve essere il turista che si adatta al luogo che visita e non viceversa, nel vantaggio reciproco, perché la bellezza sta proprio nella diversità. Il sole sta tramontando ma non è freddo e si sta bene, Segagana è cotta incespica anche un paio di volte, i cippi che indicano i chilometri si avvicinano sempre più lentamente. Mancano due chilometri al paese e ormai è notte, la strada ritorna sterrata, entrando in paese è quasi tutto chiuso e buio. Alla fine del paese troviamo una gite d’etape, bussiamo e ci apre un affascinante anziana signora vestita elegantemente con la fronte e il mento tatuati. Ci sistemiamo in una camera al piano terra, mentre il marito porta Segagnana al meritato riposo. Dopo aver mangiato insieme all’anziana coppia chiudiamo questa bella giornata. |
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La luce forte ci fa capire che il tempo è bello, mi vesto e esco a fare qualche foto, quando rientro è tutto pronto per una colazione a base di riso. Sarebbe il momento giusto per partire, ma l’asino è chiuso nella stalla e Fatima in pratica ci obbliga ad andare a casa sua per una seconda colazione, aspettiamo in sala insieme alla nonna, a una bella ragazza con i terribili segni di una grande ustione che le ha mutilato la mano sinistra e tutta la famiglia in una stanza che sta diventando sempre più fumosa. Mi sento un po’ sotto sequestro, fuori c’è una luce bellissima, ma Fatima e Mohammed ci tengono tantissimo ad offrirci questa seconda colazione. Finalmente arrivano le frittelle di un tipo mai visto prima, una specie di wafer morbido all’uovo, nel frattempo è arrivato anche “Schiena Bin Laden” (Mhand) e le mangiamo tutti insieme. Finalmente riesco a spostarmi nella stalla con Mohammed che mi chiede di essere fotografato abbracciato alla sua pecora preferita, è grande la gratitudine verso questi animali che in pratica mantengono la famiglia. Con l’asino davanti casa carichiamo i bagagli nella shuarì, i fratelli Hangun legano la shuarì alla berbera, il carico è sicuramente più fermo e stabile, ma Segagnana non gradisce lo strizzamento di pancia e manifesta il suo disappunto con una sfolgorante scarica di curegge, lo spettacolo meteoritico diverte tutta la “piccola comunità” radunata intorno a noi. Attraversiamo i tre duuar alti, la Kasbah, granai, lavatoi e pollai, passiamo a fianco di un enorme albero con un tronco più grande del più grande castagno della Madonna del Monte. Sento piangere, mi affaccio e vedo un bimbo pendicone da un buscione e la sorellina nel pianello di sotto, recupero il bimbo mentre arriva un uomo che nella foga di aiutare la bimba inciampa e gli tombola sopra, per fortuna nessuno si fa male e ci salutiamo. Scendiamo fra i terrazzamenti sempre più ampi coltivati a grano fino alle scuole dove prendo un altro contatto per Base Elba. Come sempre siamo accolti con grande entusiasmo, e testimoniamo l’avvenuto contatto con una foto di gruppo con insegnanti, Segagnana e tanti bimbi. Scendendo una giovane ragazza con una neonata sulle spalle fa amicizia con Serena, in un paesaggio caratterizzato da netti cambiamenti di colore con le rocce e il terreno che cambiano all’improvviso dal rosso, al verde, al giallo. Arriviamo nel primo pomeriggio a fondo valle è il centro più importante della valle di Ait Boualli, qui tutti lo chiamano il souk per il mercato che vi si svolge il sabato. C’è una piazzetta polverosa circondata da un porticato e alcuni edifici rossi, complici il caldo e la luce accecante l’atmosfera è quella di un western di Sergio Leone. Ci fermiamo nella gite d’etape per una doccia e risistemare gli zaini. Il padrone è un marocchino ma sembra un tedesco, nell’aspetto assomiglia al babbo di Zighe, mi chiede se stasera abbiamo voglia di mangiare pesce, io gli dico di si immaginandomi una bella grigliata, ci salutiamo dandoci appuntamento per la cena. Qui a fondo valle il sole cala presto, fa freddo anche per il vento e tutti stanno rientrando verso i villaggi. Dalla montagna rientrano uomini sui muli e donne a piedi che per guadare il fiume si tolgono le scarpe e si tirano su i vestiti fino alle ginocchia. Anche i bimbi che escono dal turno pomeridiano della scuola si avviano verso le loro case. La cena è una delusione tremenda sono due sardine in scatola (una per uno) arrostite, per fortuna che siamo stati ospiti dei generosi berberi dei villaggi alti, se no sarebbe stata fame. |
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