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Ancora una giornata bellissima, il cielo è azzurro intenso senza nemmeno una nuvola. La valle di Tabant è molto bella incastonata fra alte montagne dalle vette innevate, ha una grande pianura tutta coltivata e alterna specchi di terreno verdi ad altri arati, al centro scorre un torrente e tutto intorno canali d’irrigazione che ora sono particolarmente ricchi d’acqua perché la neve delle montagne si sta sciogliendo. All’ingresso della valle c’è una collina che assomiglia a un cono rovesciato, sulla sommità un monumentale granaio fortificato che è un po’ il simbolo di questa zona, è unico perché di forma circolare, era una struttura comunitaria dove si accumulavano i raccolti per difenderli in caso di assalto. Decidiamo di salire, per arrivare bisogna attraversare vari corsi d’acqua sopra dei ponticelli di tronchi. Salendo la fortezza somiglia tantissimo al Volterraio e anche le rocce lo ricordano. In vetta il panorama è veramente superbo, si vede la strada che abbiamo fatto ieri e la valle che dovremmo percorrere nei prossimi giorni. Il Volterraio marocchino è fatto di terra e nonostante la forma circolare l’abbia reso più resistente al vento rispetto alle tradizionali strutture a base quadrata, non raggiunge i due secoli di storia. Seduto di fianco alla porta del granaio c’è un anziano signore, recita qualcosa scorrendo tra le mani una specie di rosario di legno, è piccolo piccolo ha la barba bianca ed è vestito di blu. Mi fa festa e mi vuole toccare, mi rendo conto che è praticamente cieco, fa per aprire la porta del granaio, ma gli dico di aspettare perché non sono solo. Arrivata Serena le fa una gran festa e poi entriamo nel granaio, c’è un giaciglio, forse lui dorme proprio qui, facciamo un giro del granaio e saliamo su una scala scavata in un tronco fino al tetto di terra. È un posto eccezionale, la collina non è altissima rispetto al piano della campagna, che comunque è superiore ai 1850 metri, saranno quattrocento metri, ma l’orizzonte è veramente molto ampio si ha la sensazione di essere su un faro che controlla il più importante valico di montagna della zona. Probabilmente in estate è un luogo visitato quotidianamente da turisti, ma in questo periodo ci siamo solo noi e fa un certo effetto lasciare quest’uomo da solo. Scendiamo dall’altro lato e andiamo a fare un giro per la campagna, nella zona più paludosa gli uomini tagliano i giunchi, ci sono tantissime cicogne che fanno i nidi sugli alberi più grandi e sopra i muri più alti, sono parte armonica del paesaggio come i contadini, gli asini e le mucche e si muovono tranquillamente fra i coltivi. Torniamo nel paese, mi hanno detto che c’è internet, c’è tanto bel materiale da spedire, in realtà non c’è un internet point, ma il gestore di una piccola fotocopieria che ha un portatile con la connessione, però oggi non va, quindi decido di andarmi a fare i capelli in una microscopica barberia. Il tempo è stabile, anche il padrone di casa ci dice che durerà, domani voglio provare a salire fino alla vetta del Igoudamen una montagna di 3520 metri che domina dall’alto questa valle. |
TagFebbraio 2008
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La giornata è ancora più bella di quella precedente, l’ideale per fare una lunga marcia fino a Tabant, che prevede il superamento di un impegnativo passo. Scendiamo la valle fiancheggiando il fiume, lungo la strada ci sono diversi duuar su entrambi i lati del fiume, caratterizzati da grandi Kasbah a testimonianza della grande importanza strategica di questa valle, unica via d’accesso verso le fertili pianure della regione di Marrakech. Lungo la via incontriamo un gregge magistralmente condotto da un minuto bimbo pastore che avrà non più di cinque anni, ma che con portamento da adulto conduce sicuro il suo gregge. Camminiamo insieme fino al guado e poi continuiamo a scendere fra paesaggi che acquistano colori e forme più familiari, i pendii sono ricoperti da grandi pini d’aleppo e lecci e le montagne ricordano i colori delle montagne corse nella zona del Calanches. La pista si sta trasformando in strada, ci sono operai e un paio di ruspe che stanno allargando la via, ce ne avevano parlato alla scuola ieri con entusiasmo perché alla fine dei lavori arriverà anche internet. È il progresso che avanza con i suoi pro e i suoi contro, sono comunque contento di aver visto queste valli senza mezzi a motore. Mentre stiamo per iniziare l’ascesa verso il passo un’immagine forte “dell’incontro di due epoche”: un anziano contadino con un aratro di legno trainato da due asini sta arando un terreno vicino al fiume, mentre dei tecnici giunti qui con un’auto studiano su una carta la nuova strada, incrocio lo sguardo del “capo” e vedo in lui la consapevolezza che quest’opera cancellerà per sempre queste immagini medioevali. Segagnana è in crisi tenta più volte di tornare indietro e devo continuamente urlargli “HERRA!!” per non farla piantare. Tutti i berberi comandano le loro bestie così, ma io lo dico all’elbana e tutti ridono e mi pigliano pel culo, comunque fra un paesaggio sempre più maestoso e spoglio raggiungiamo il passo sotto l’occhio curioso dei pochi pastori. Arrivati sulla vetta nel vento gelido ci attende una pattuglia di gendarmi che controlla il bivio, qui la pista finisce e incrocia la strada che a destra scende verso Tabant, mentre a sinistra porta a Azilal il più grande centro della zona. Ci chiedono i passaporti e ci fanno un sacco di domande, mi chiedono anche il nome del mi babbo e della mi mamma e nel modulo mezzo di trasporto scrivono asino, sono incuriositi e anche affascinati dalla nostra “impresa” e ci raccomandano attenzione e prudenza. Ci attendono ancora quindici chilometri di cammino, ma tutti in discesa e su strada. Dopo qualche chilometro incontriamo tre escursionisti in montain bike, primo incontro “occidentale” da diversi giorni. Poi iniziano i piccoli villaggi, sulla destra si apre una campagna coltivata, mentre a sinistra una alta e impervia parete di roccia da dove escono intrepidi ginepri e ardite palme nane che mi ricordano le pareti di calcare fra Nisportino e Monte Grosso anche se qui è tutto molto più grande, e ogni tanto si vede saltare qualche scoiattolo di barberina. Arriviamo a Bou Goumez, è un bel villaggio, ma dopo l’esperienza vissuta negli integri duuar incontrati da Imi Nifri a qui, sembra un po’ finto. Questo è il punto di partenza per l’escursioni sul Monte M’Goun, seconda vetta in Marocco dopo il Toubcal, ci sono scritte in francese e negozi di souvenir e tutti dicono Bonjour Bonjour. Sicuramente il turismo escursionistico ha portato dei grossi benefici alle persone, però sono sempre più consapevole che leva spontaneità e dignità alla gente. Penso che la sfida sia quella di sviluppare il turismo escursionistico conservando e valorizzando la storia e le caratteristiche di ogni piccola comunità, deve essere il turista che si adatta al luogo che visita e non viceversa, nel vantaggio reciproco, perché la bellezza sta proprio nella diversità. Il sole sta tramontando ma non è freddo e si sta bene, Segagana è cotta incespica anche un paio di volte, i cippi che indicano i chilometri si avvicinano sempre più lentamente. Mancano due chilometri al paese e ormai è notte, la strada ritorna sterrata, entrando in paese è quasi tutto chiuso e buio. Alla fine del paese troviamo una gite d’etape, bussiamo e ci apre un affascinante anziana signora vestita elegantemente con la fronte e il mento tatuati. Ci sistemiamo in una camera al piano terra, mentre il marito porta Segagnana al meritato riposo. Dopo aver mangiato insieme all’anziana coppia chiudiamo questa bella giornata. |
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La luce forte ci fa capire che il tempo è bello, mi vesto e esco a fare qualche foto, quando rientro è tutto pronto per una colazione a base di riso. Sarebbe il momento giusto per partire, ma l’asino è chiuso nella stalla e Fatima in pratica ci obbliga ad andare a casa sua per una seconda colazione, aspettiamo in sala insieme alla nonna, a una bella ragazza con i terribili segni di una grande ustione che le ha mutilato la mano sinistra e tutta la famiglia in una stanza che sta diventando sempre più fumosa. Mi sento un po’ sotto sequestro, fuori c’è una luce bellissima, ma Fatima e Mohammed ci tengono tantissimo ad offrirci questa seconda colazione. Finalmente arrivano le frittelle di un tipo mai visto prima, una specie di wafer morbido all’uovo, nel frattempo è arrivato anche “Schiena Bin Laden” (Mhand) e le mangiamo tutti insieme. Finalmente riesco a spostarmi nella stalla con Mohammed che mi chiede di essere fotografato abbracciato alla sua pecora preferita, è grande la gratitudine verso questi animali che in pratica mantengono la famiglia. Con l’asino davanti casa carichiamo i bagagli nella shuarì, i fratelli Hangun legano la shuarì alla berbera, il carico è sicuramente più fermo e stabile, ma Segagnana non gradisce lo strizzamento di pancia e manifesta il suo disappunto con una sfolgorante scarica di curegge, lo spettacolo meteoritico diverte tutta la “piccola comunità” radunata intorno a noi. Attraversiamo i tre duuar alti, la Kasbah, granai, lavatoi e pollai, passiamo a fianco di un enorme albero con un tronco più grande del più grande castagno della Madonna del Monte. Sento piangere, mi affaccio e vedo un bimbo pendicone da un buscione e la sorellina nel pianello di sotto, recupero il bimbo mentre arriva un uomo che nella foga di aiutare la bimba inciampa e gli tombola sopra, per fortuna nessuno si fa male e ci salutiamo. Scendiamo fra i terrazzamenti sempre più ampi coltivati a grano fino alle scuole dove prendo un altro contatto per Base Elba. Come sempre siamo accolti con grande entusiasmo, e testimoniamo l’avvenuto contatto con una foto di gruppo con insegnanti, Segagnana e tanti bimbi. Scendendo una giovane ragazza con una neonata sulle spalle fa amicizia con Serena, in un paesaggio caratterizzato da netti cambiamenti di colore con le rocce e il terreno che cambiano all’improvviso dal rosso, al verde, al giallo. Arriviamo nel primo pomeriggio a fondo valle è il centro più importante della valle di Ait Boualli, qui tutti lo chiamano il souk per il mercato che vi si svolge il sabato. C’è una piazzetta polverosa circondata da un porticato e alcuni edifici rossi, complici il caldo e la luce accecante l’atmosfera è quella di un western di Sergio Leone. Ci fermiamo nella gite d’etape per una doccia e risistemare gli zaini. Il padrone è un marocchino ma sembra un tedesco, nell’aspetto assomiglia al babbo di Zighe, mi chiede se stasera abbiamo voglia di mangiare pesce, io gli dico di si immaginandomi una bella grigliata, ci salutiamo dandoci appuntamento per la cena. Qui a fondo valle il sole cala presto, fa freddo anche per il vento e tutti stanno rientrando verso i villaggi. Dalla montagna rientrano uomini sui muli e donne a piedi che per guadare il fiume si tolgono le scarpe e si tirano su i vestiti fino alle ginocchia. Anche i bimbi che escono dal turno pomeridiano della scuola si avviano verso le loro case. La cena è una delusione tremenda sono due sardine in scatola (una per uno) arrostite, per fortuna che siamo stati ospiti dei generosi berberi dei villaggi alti, se no sarebbe stata fame. |
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Mi svegliano le pecore col loro belare, poi suona anche la sveglia delle sette, ma non ho voglia di alzarmi, fa freddo sto proprio bene nel sacco a pelo. Serena mi dice che è una bella giornata e che sono già tutti svegli… mi devo alzare. Appena aperta la porta è entrata Farida, la padrona di casa. Dopo una pisciata sul muro del vicino rientro e trovo una meravigliosa sorpresa: una grande ciotola di legno d’olivo piena di riso in bianco condito con olio d’oliva, è da più di un mese che ho voglia di mangiare riso in bianco e nel posto più inaspettato vengo accontentato. Il posto è bello e affascinante sia per i duuar, piccoli villaggi che compongono Ait Boualli, ricchi di strutture affascinanti, che per l’aspetto paesaggistico con le sue montagne e colline colorate, le frane, gli aspri pendii e le grotte, merita una giornata d’approfondimento. Ci incamminiamo verso monte, incontriamo un paio d’asini e poi due donne che stanno andando sulla montagna a fare la legna, hanno una piccozza ciascuna sulle spalle e due piccozzini nella cintura del vestito, salgono velocissime canticchiando, mostrando una forza straordinaria. Il paesaggio è bellissimo, siamo circondati da friabili montagne rosse, gialle e verdi. Arrivati sulla prima sella finalmente incontriamo la neve, è poco più di una chiazza in una zona d’ombra, ma abbastanza per divertirsi un po’ a camminarci sopra. Siamo avvolti dal silenzio interrotto soltanto dai colpi di piccozza delle donne incontrate prima e dal canto di una bambina che sta scendendo col proprio asino carico di legna, è un canto che viene dal passato, richiama ritmi e riti tribali, è da un paio di giorni che si sentono questi canti provenire dalle montagne e dai viottoli che l’attraversano, canti che sembrano chiedere protezione all’imponenza di questa natura e che fanno compagnia in questa vastità. Gli alberi di leccio e gli arbusti di ginepro sono messi a dura prova dalle capre, ma non demordono e i loro tronchi sono ricoperti da piccole foglie spinose fitte fitte che disegnano forme rotondeggianti a difesa della linfa del tronco. È una terra dura da vivere questa, per gli uomini, per le capre e per le piante, ma anche per le rocce e per i pendii delle montagne messi a dura prova dalle temperature rigide e dall’inclemenza del tempo, ma è anche un luogo di orizzonti ampi, colori cangianti, silenzio e aria pura, dove respirano bene i polmoni e si allargano anche sereni pensieri che spaziano liberi verso gli orizzonti innevati. È impressionante vedere come sia tutto coltivato anche i pendii più alti e rocciosi, dove non è pietra è coltivo e fra le rocce le capre e le pecore, controllate dai pastori che vigilano silenziosi sulla voracità delle loro greggi tenute a bada da fischi e lanci di pietre, in alcuni punti i coltivi sono circondati da barriere di piante spinose a mo’ di rotoli di filo spinato. Saliamo sulla vetta di una montagna friabile per ammirare la valle sottostante da una prospettiva privilegiata e lo spettacolo ripaga la fatica, decine di guglie di terra e pietra di una serie infinita di toni di rosso, ocra, verde e giallo guarniscono le ripide e scarne valli che confluiscono verso il fiume. Il tempo si incupisce, in lontananza si vedono piovaschi e buriane di neve, mentre sopra di noi scende una grandinina rada. Da qui si ha una percezione chiara della vastità dell’Alto Atlante e della grande quantità di neve che contiene, la grande preziosa risorsa del Marocco che ha permesso a questa terra di sviluppare una civiltà plurimillenaria, penso anche a quando tra pochi giorni attraverseremo gli alti passi innevati. Scendiamo attraversando un’altra zona coltivata e poi, dopo aver superato il rudere di quella che credo potesse essere un’antica costruzione militare, saliamo sulla vetta più alta della zona dove complice una momentanea schiarita ci fermiamo un po’ a goderci il sole caldo. Siamo proprio sopra il duuar, circa seicento metri più in alto, è una montagna caratterizzata da forme fantasmagoriche delle rocce, dove spicca un grande arco naturale di pietra e terra sotto il quale ci sono due piccole grotte protette da muri a secco che ricordano i rifugi sotto roccia della montagna elbana. Scendendo verso valle si incontrano delle grandi grotte scavate naturalmente nella roccia ora più compatta, sopra una di queste spiccano due grandi nidi di rapaci simili a quelli del falco pellegrino, ma più grandi, forse nidi di aquile o avvoltoi. Arriviamo in paese insieme alla pioggia, pensavamo di partire nel primo pomeriggio, ma la bellezza del luogo ci ha spinto a camminare tutto il giorno, quindi passeremo un’altra notte a casa Hangun. Scendendo incontriamo il padrone di casa, ci intendiamo con un cenno, prima di rientrare andiamo a comprare qualcosa da mangiare. Il negozio incontrato ieri è chiuso, proseguiamo verso il duuar più a valle, il tempo brutto ha spinto tutti a rientrare in anticipo in paese, incrociamo una bella bimba che sta riportando il suo gregge di pecore all’ovile sotto casa, passiamo sotto un tunnel fatto di travi in legno, sopra il quale è costruita una casa di fango. Troviamo un negozio ma chiuso, chiedo a un bimbo dove si può trovare un negozio aperto e lui mi dice di aspettare, bussa alla porta della casa accanto e dopo pochi minuti esce il padrone del negozio che ci apre con la torcia presa nello zaino perché il temporale ha fatto saltare la corrente. Li chiamano negozi ma sono totalmente diversi da quelli che conosciamo noi, sono come piccole cantine dove c’è accatastata un po’ di roba: sapone, biscotti, lana, farina, scatole di sardine, corde di tutto un po’. Compriamo un po’ di dolci, due chili di pasta e due di riso che qui non vengono venduti in scatola ma ci sono due grossi bidoni aperti tipo quelli che si usavano un tempo a vendemmia, il contenuto viene messo con una sassola dentro dei sacchetti e poi pesato sulla bilancia, da un lato la merce dall’altro i pesi di varia misura, poi viene fatto il conto in franchi, che però non esistono, e convertito in dirham. Fatta la spesa il padrone del negozio ci invita a casa per un the. La casa è una grande sorpresa, all’esterno è fatta di fango e pur essendo molto più grande della “nostra”, non è molto diversa, ma l’interno è molto più lussuoso e curato: le pareti sono tutte dipinte di bianco e celeste e sul pavimento ci sono le piastrelle e c’è una grande sala con bei tappeti e grandi divani e le finestre dai vetri policromi. Ci viene offerto il solito the accompagnato da noci, mandorle, pane, olio, burro e alcuni dolcini che con la fame che ci ritroviamo apprezziamo tanto. Dopo le solite foto coi figli il padrone di casa ci invita a rimanere a dormire lì, ringraziamo, ma spieghiamo che siamo già ospiti da un’altra famiglia. trekking intorno al mondoTutta questa ospitalità verso sconosciuti mi fa venire spesso in mente la traversata in canoa dall’Elba a Roma fatta in compagnia di Elias pochi giorni prima di partire, durante la quale siamo stati fermati più volte dai carabinieri accusati di vagabondaggio e ogni volta che abbiamo cercato alloggio in albergo i proprietari hanno sempre voluto essere pagati in anticipo e qualche volta non ci hanno nemmeno voluto accogliere, chiaramente sempre a pagamento e dietro presentazione di documenti. In particolare mi viene spontaneo il raffronto con l’arrivo a Roma quando tutti gli alberghi dicevano di essere completi e se non era per Serena che era venuta a Roma che a un certo punto è andata da sola a prenotare una camera anche per noi, ci toccava dormire fuori col rischio di essere arrestati per vagabondaggio.
Rientriamo a casa con tutta la famiglia che ci sta aspettando, le donne di casa fanno una grande festa alla pasta e al riso. Ci spostiamo nella casa del fratello e facciamo la seconda merenda con the e uova al pomodoro, facciamo conoscenza anche con la nonna, è una situazione stranissima per essere qui in Marocco, sono l’unico uomo in mezzo a tante donne, sono tutte di buon umore, anche Farida che sta allattando con molta naturalezza la piccola Aziza. Fatima, la padrona di casa, anche per il fatto che il marito è spesso fuori a lavorare, rispetto a tante donne incontrate è molto più emancipata, vuole che la seguiamo con la macchina fotografica e ci porta a vedere il tesoro di famiglia: è una vacca incinta, ce la mostra con grande orgoglio e noi e tutta la famiglia ci facciamo le foto con la mucca. La grande stalla che ospita la mucca, il ciuco, le galline e le pecore di famiglia sarà anche per questa notte la casa di Segagnana che se la sta passando proprio alla grande. Torniamo alla nostra base, tutti vogliono vedere le foto, quindi le scarichiamo nel computer e facciamo l’ormai rituale proiezione. Sono tutti interessati alle foto fatte in giornata e ci insegnano i nomi di tante località, ma le foto che interessano di più chiaramente sono quelle con le persone di casa.
Regaliamo una penna a ogni bimbo e su un foglio scrivo in italiano i nostri nomi e i loro chiedendo di scriverli in arabo, è bello vedere quanta gratitudine e interesse ci siano per una semplice penna e un foglio di carta e quanto impegno ci sia nello scrivere e nell’imparare e poi sono molto orgoglioso di aver imparato a scrivere qualcosa in arabo (copiando). Arriva anche uno zio, anche lui vuole le foto, poi vengono fuori vecchie foto di famiglia, fotografo anche queste e le scarico nel computer così facciamo anche la proiezione delle vecchie foto di famiglia. Prometto una volta arrivato a Beni Mellal di stampare tutto e inviarlo per posta qui. È tardi e tutti hanno sonno anche noi e poi non ho né sistemato le foto né scritto niente, ma ci trasferiamo nuovamente nell’altra casa per la seconda cena, tajine davanti alla televisione…
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Durante la notte il freddo si è fatto sentire, sono ancora rintanato nel sacco a pelo quando sento il passo dei bimbi intorno alla tenda, apriamo e ci troviamo davanti le due sorelle di ieri e il fratello più piccolo che ci hanno portato caffelatte olio e pane. La loro casa non è distante, sarà circa a mezzo chilometro, ma il dislivello è notevole, saranno quasi cento metri molto ripidi tra cespugli di ginepro e leccio. Scaldati dal latte cominciamo a prepararci per la partenza, per prima cosa sciolgo le zampe all’asina e gli do un po’ di fieno, poi inizio a smontare la tenda mentre Serena prepara gli zaini. Dopo una mezz’oretta dalla prima colazione ritornano i bimbi, questa volta sono in quattro, c’è il fratello grande, quello di ieri sera, ci portano pane caldo e burro, ricambiamo regalandogli un pile, una collana, una fascia e tutto il mangiare che abbiamo: un barattolo di marmellata e un po’ di biscotti. Passa un’altra mezz’ora prima di partire, nel frattempo i bimbi sono tornati, questa volta sono due, ci accompagnano fino alla pista poi ci chiedono di andare a casa sua, noi li salutiamo e proseguiamo per il nostro cammino. Il paesaggio è maestoso ed ogni volta che il sentiero entra in una nuova gola le montagne sono sempre più alte e l’ambiente selvaggio. Camminiamo per un’ora immersi nel silenzio tra frane e alberi di leccio semi-spogli per la voracità delle capre che pascolano queste montagne. Il crinale sopra di noi ricorda il Monte Calanche, ma è enormemente più grande. La prima presenza umana della giornata sono un gruppo di donne stracariche di legna che stanno camminando curve verso il loro villaggio, nonostante il peso e il fondo instabile del sentiero, appena vedono la macchina fotografica iniziano a correre. Continuiamo a salire il fianco destro di una lunga valle, sopra di noi la neve e sotto un grande strapiombo che termina nel oued, da cui risale il fragoroso suono delle sue rapide. Arrivati al culmine iniziamo a scendere ripidamente e incontriamo un bimbo pastore con le sue capre, il sole è caldo, ma quando si entra nelle gole fa freddo, nei punti dove batte poco il sole si vede ancora la neve. È un ambiente aspro, le pendici della montagna sono aride e quasi inaccessibili, ma nonostante questo il sentiero è contornato da terreni coltivati, con tanti muri di contenimento per cercare di contrastare l’instabilità del terreno che è caratteristica di questa zona. Scendiamo fino a guadare il fiume e poi risaliamo, ormai siamo circondati da cime innevate e da villaggi che non esistono sulle mappe, la vegetazione è formata quasi unicamente da ginepri e lecci che hanno nelle capre il loro nemico, qui i lecci hanno le foglie particolarmente spinose e hanno l’aspetto di cespugli di spine dalle forme morbide, quasi sempre rotondeggianti. La montagna e il sentiero sono fatti di argilla rossa che rende il cammino ancora più impegnativo specialmente per Segagnana che si impantana un paio di volte, si incontrano soltanto pastori, quasi sempre ragazzini o persone molto anziane, tutti molto schivi e silenziosi e danno l’impressione di essere sempre assorti nei loro pensieri. Arriviamo al punto più alto della giornata, è difficile capire la quota, ma dovremmo essere sui duemilacinquecento metri, a un certo punto si apre un paesaggio magnifico la grande catena dell’Atlante tutta innevata si apre davanti a noi che siamo immersi in una serie ininterrotta di colline rosse che ricordano il Monte Calendozio, ma con un estensione di decine di chilometri. È un paesaggio fantastico che inizia con le colline rosse per tuffarsi in valli verdi e poi risalire su montagne rigogliose che finiscono su altopiani e vette innevate.
Vediamo le prime case a destra e a sinistra del fiume, i villaggi hanno le stesse tonalità di colore della terra, decido di andare verso sinistra dove ci sono tre villaggi in sequenza abbastanza grandi all’interno dei quali spiccano due Kasbah, una diroccata, ma una ancora integra, sopra i villaggi una montagna ocra ricca di grotte. L’ingresso del paese è fra i mandorli ancora in fiore, è sicuramente il villaggio più suggestivo tra quelli finora visitati, è molto grande ma sembra quasi disabitato. Il sentiero è molto stretto e fiancheggia grandi case costruite di pietra, legno e fango, dalle aperture a volte si affacciano persone, a volte pecore, a volte galline, senza soluzione di continuità. Come immersi in un sogno attraversiamo i villaggi, il profumo della legna che arde rende tutto ancora più suggestivo. Il sole sta per tramontare e comincia a fare veramente freddo, cerchiamo qualcosa da mangiare e un posto dove dormire, una casa o un punto dove montare la tenda. Troviamo un piccolo negozio dove vendono principalmente lana e saponi, da mangiare hanno soltanto biscotti e una specie di nutella bianca e nera fabbricata in Olanda apposta per il Marocco. Ci procura anche un po’ di pane rimediandolo in una casa. Cerchiamo da dormire ma ci dicono che nel villaggio non c’è possibilità di alloggiare, quando ormai stiamo per lasciare il paese veniamo chiamati da un giovane uomo che ci invita a casa sua, ancora una volta saremo ospiti. La casa è la più povera tra quelle che abbiamo visto finora, come del resto anche il villaggio, ma è bellissima. Si comunica con i gesti e le espressioni, qui nessuno, nemmeno i giovani e i bimbi, parla francese e neanche arabo. Scarichiamo i bagagli nella “sala” e mentre Serena fa conoscenza con la famiglia, io seguo Mohammed, il fratello di Mhand, che ci offrirà la sua stalla per Segagnana, la stalla è in un posto favoloso proprio sotto alla grande kasbah diroccata. Facciamo merenda con latte caldo, pane e olio, mai così gradito e poi con l’aiuto dei biscotti e delle foto iniziamo a fare amicizia coi bimbi, dopo un the Mohammed ci invita a mangiare a casa sua e insieme al fratello ci spostiamo di pochi metri per entrare nell’altra casa. Il motivo di questo trasferimento è che qui c’è la televisione, ambizione e vanto di tutte le famiglie dei villaggi berberi. Mentre prendiamo l’ennesimo the il gatto di casa gira fra il tavolo e il braciere Mhand per scacciarlo lo manda con la coda dentro il braciere, la povera bestia parte con la coda fumante fra le risate generali e il puzzo di pelo bruciato che invade la stanza. Mohammed si è tolto l’abito tradizionale e si presenta per salutarci con una rifrangente tuta da lavoro, stile protezione civile, va al lavoro a fare il turno di notte sulla strada che stanno costruendo per collegare il villaggio, così mi sembra di aver capito. Senza il gonnellone sembra molto più magro. Mangiamo il tajine tutti insieme, poi guardiamo un po’ di televisione e torniamo alla nostra casa per dormire.
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Ci svegliano i passi furtivi dei bimbi fuori dalla casa, dalla luce che entra dalla finestra sembra una giornata di sole. Appena apro la porta è già pronta la colazione: pane, burro, caffelatte e zuppa di ceci, poi subito a trovare Madame Zara, la mamma di Lahcen e riferimento per tutta la famiglia. Dal tetto di casa spunta un bidone di latta, sopra tre sostegni di legno una lastra, un tappo di pentola e un sasso, è il comignolo della cucina di Zara. Davanti all’ingresso c’è il forno per il pane, entrando la macina in pietra con cui sono stati macinati i ceci della colazione, poi il “salottino” con il camino-cucina e in fondo il letto, le pareti sono di paglia e fango, il pavimento di terra battuta, chiaramente facciamo una seconda colazione: uova lesse, una misteriosa tisana rossa e il classico the. È una donna eccezionale, sarà alta un metro e cinquanta, ma ha un gran carisma, è una vera matriarca rispettata da tutti grandi e piccini. Ci avviamo verso la scuola, “il cinema” di ieri ha fatto notizia e tutti vogliono essere fotografati, quello che fino a ieri sembrava un problema ora si è rovesciato, perfino un’anziana signora mi chiama per essere fotografata, quando le faccio vedere la foto si dispera perché dice che non è più bella perché è diventata vecchia, la sua mimica scatena una grande risata generale. Sono circondato da almeno cinquanta bimbi che fanno di tutto per farsi fotografare, chi salta, chi si fa il cappello col pallone bucato, le bimbe vengono con i neonati legati dietro la schiena, a un certo punto smetto perché si sta creando una calca schiaccia bamboli. Entriamo a scuola che oggi è chiusa, ma ci sono gli insegnanti, vengono da altre zone del Marocco e vivono in un appartamento comune all’interno della scuola. Come sempre il progetto di Base Elba viene accolto con entusiasmo, ma qui viene recepito ancora meglio, sarà perché qui gli insegnanti sono giovani e anche perché in questo villaggio c’è già stata una cooperazione con una scuola belga. Gli insegnanti (tre ragazzi) ci invitano alla terza colazione della mattina che però rifiutiamo perché siamo strasatolli, passiamo una ventina di minuti molto piacevoli, ci parlano della difficoltà di insegnare l’arabo in villaggi dove tutti parlano solo berbero con dialetti diversi da villaggio a villaggio anche nella stessa valle e di quanto gli piacerebbe accompagnare i loro allievi all’Isola d’Elba, ci scambiamo gli indirizzi con l’intenzione di sentirci a breve e cosa molto importante per il progetto mi faranno la presentazione in arabo di Base Elba. Ci propongono mille motivi per restare qui, ma il tempo è bello e voglio partire. Andiamo a casa, carichiamo il bagaglio su Segagnana e salutiamo la famiglia con la solita sensazione di lasciare degli affetti importanti, queste persone così povere che ti danno tutto quello che hanno ti insegnano con l’esempio quelli che sono i veri valori nobili per una persona. Appena ripresa la strada principale subito un incontro tra l’epico e il surreale: un gruppo di donne piegate da dei fasci enormi di legna avanzano a passo di marcia verso il paese, sono sommerse dalla legna verde e si vedono soltanto le gambe. Incontriamo persone e situazioni che fino a due giorni fa ci sarebbero sembrate eccezionali, ma che ora ci sembrano quotidiani, come le donne che lavano ai fossi. Man mano che la strada avanza il paesaggio diventa sempre più di montagna con le vette innevate che ormai sembra quasi di toccarle. Saliamo fino quasi a livello della neve, poi scendiamo in una valle ricca d’acqua dove ci sono tanti piccoli villaggi di cui non si riesce a capire né la posizione né il nome. Ormai siamo nel cuore dell’Atlante, il paesaggio è molto simile a quello che mi aspetto di trovare in Tibet: case di pietra e di fango dello stesso colore delle brulle montagne, abitate da persone vestite di colori sgargianti dai visi bruciati dal sole e capre e pecore che pascolano su pendii impossibili. Il villaggio più alto incontrato finora da un’ulteriore svolta al nostro cammino, la strada seppur stretta e praticamente percorsa soltanto da asini e muli è finita, ora inizia la pista, una mulattiera dal fondo rossastro oggi ricoperta di fango per le recenti piogge. Sopra di noi ci sono degli alti picchi maestosi ma instabili da cui vengono giù coti enormi. Saliamo su un poggiolo fuori dalla zona delle frane e qui piazziamo la tenda. È un paesaggio maestoso siamo circondati da alte vette innevate, in basso alcune case di fango e a fondo valle il villaggio principale con la moschea. Appena arrivati un ragazzino incontrato poco prima ci raggiunge e ci invita a andare ad mangiare e dormire a casa sua, poco dopo arriva anche il padre con la stessa offerta, ringrazio ma decido di rimanere qui, il posto è bellissimo anche se so che sicuramente sarebbe stata un’altra serata di grande umanità. Mentre Serena ricovera l’asina e io monto i tiranti alla tenda dalla macchia spuntano due ragazzine incuriosite dalla nostra presenza, anche loro ci invitano a dormire alla loro casa, forse sono le sorelle del bimbo di prima. È ormai notte quando vediamo arrivare le due bimbe con un barattolo di latte appena munto per noi, ringraziamo e ci diamo appuntamento per la colazione domani mattina. |
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La pioggia ci sveglia quando deve ancora albeggiare e continua a cadere abbastanza insistente fino a mezzogiorno. Per prima cosa do da mangiare all’asina che già da un po’ raglia insofferente, poi iniziamo a smontare, giusto il tempo per caricare i bagagli nella shuarì che ricomincia a piovere. Partiamo in direzione del passo che raggiungiamo dopo circa mezz’ora, quando si diradano le nubi bianche si vede vicina la neve. Nonostante il tempo la strada è molto bella e i pendii scoscesi della montagna sono comunque coltivati a cereali con dei piccoli muri a secco che spezzano i punti più ripidi. Vediamo un villaggio con un vistoso minareto bianco, decido di fermarmi per fare provviste. Sono tutti villaggi che non sono segnati nelle mappe, ma alcuni, come questo, sono abitati da più di mille persone, ormai ho imparato che in una piccola casa vivono almeno una decina di anime. Un viottolo sterrato ci porta verso il centro del paese, ci sono tre piccoli negozietti in fila, hanno soltanto the, qualche scatoletta di sardina e delle piccole confezioni di biscotti, nessuno ha il pane perché in questi villaggi ognuno lo fa nel forno della propria casa. Come succede sempre s’è fatta gente, c’abbiamo tutto il paese intorno, chiedo se qualcuno ci può vendere del pane, si fa avanti un tipo dall’aria spavalda che ci invita a casa sua per mangiare, sciolgo Segagnana e lo seguiamo. Attraversiamo quasi tutto il paese per raggiungere la casa di Lahcen percorrendo stretti vicoli fangosi per la pioggia e scendendo alcuni muri dove Segagnana dimostra tutto il suo talento di asina di montagna. La casa ha le stalle sotto dove ci sono due mucche e un asino, e il bagno. La cucina è un “monolocale” esterno alla casa con un focolare sulla parete opposta alla porta. Entriamo, l’ingresso è una grande stanza con il pavimento di cemento, da cui si accede a due camere e una sala, dove come sempre veniamo fatti accomodare. Pranziamo con pane caldo, burro fresco e the. Pioviscola, Lahcen ci invita a rimanere qui per la notte e noi accettiamo ringraziandolo. Usciamo per fare un giro e Lahcen si offre come guida, subito dopo si unisce anche il suo amico Mohammed. Detto così sembra che in questi villaggi siano tutti vagabondi, in realtà non esiste il lavoro come lo intendiamo noi, o meglio non c’è lavoro, tutti hanno una casa, dei terreni da coltivare e gli animali, chi le capre, le pecore e i più fortunati le mucche e un asino o un mulo come mezzo di trasporto. C’è da fare la legna per il fuoco, ma non esistono orari di lavoro, quindi siccome sono persone con il culto dell’ospitalità, se c’è un ospite è normale seguirlo e accompagnarlo in ogni sua richiesta. Camminando incontriamo un sacco di galli e galline sono attratto da una musica “tribale”, seguendo il suono ci troviamo davanti ad un gruppo di bimbi e bimbe che cantano e suonano delle latte.
Scendiamo verso l’oued da un ripido viottolo tra campi di grano, ceci e lenticchie, mandorli e olivi. Lahcen e Mohammed scendono con grande agilità e in poco più di venti minuti raggiungiamo il fiume gonfio di acqua fangosa che scende dalle vette. Ci sono delle piccole rapide che formano dei gorghi, sembra un fiume di cioccolata e mi fa venire in mente Willy Wonka e la sua Fabbrica di Cioccolato, che andai a vedere al cinema di Marciana Marina qualche anno fa con la mi’ nipote. Sulla sponda del fiume c’è un mulino ancora attivo alimentato da una canala scavata dentro un tronco, è molto bello e fiabesco, tutto in legno ad esclusione della macina di pietra. Guidati da Lahcen entrando da uno stretto ingresso andiamo a vedere una grande pozza di acqua trasparente alimentata da una sorgente e poi iniziamo a rientrare anche perché sta arrivando la notte. Arrivati a casa veniamo fatti accomodare in terrazza per una spettacolare merenda pane burro e caffelatte. Contrariamente al solito tutti vogliono essere fotografati, faccio le foto alla famiglia e a tanti bimbi arrivati nel frattempo e li invito a vedere le foto sullo schermo del pc. Mentre si guarda le foto la nostra camera si riempie con più di venti persone, in maggioranza bimbi, ma ci sono anche diverse donne, alcune sono venute col vestito da festa. Faccio un sacco di foto a tutti e poi le guardiamo nell’entusiasmo generale, mi vengono in mente i racconti di zia Alvia di quando andavano a vedere, portandosi le sedie, la televisione nella casa d’Italia a Filetto. Cena in famiglia col classico tajine, tutti ci invitano a rimanere per qualche giorno decantandoci le meraviglie della zona, anche perché le previsioni sono di pioggia. Domani mattina andiamo a parlare con gli insegnanti per Base Elba, poi a vedere una grande grotta e dopo si vedrà… intanto ci godiamo questa ennesima bella serata berbera.
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Ha smesso di piovere, ma il cielo è grigio e bianco, Segagnana questa mattina è in forma, si avanza in mezzo ai campi coltivati e ogni tanto si incontrano camion e furgoni carichi di persone e animali. Dopo circa sei chilometri la strada inizia a scendere fra l’argilla rossa dove spiccano tanti olivi, alcuni molto vecchi con i tronchi bellissimi. Arriviamo al paese di Taghbalout dove dovremmo trovare tante impronte di dinosauro, leghiamo Segagnana a un palo e iniziamo la ricerca. La roccia rossa come la radiolarite di Monte Grosso è in realtà argilla compressa dove sono rimaste impresse le impronte dei giganti del passato. Le più spettacolari sono quelle dei veloci carnivori a tre e due dita, grandi dai dieci ai quaranta centimetri, mentre quelle degli erbivori, rotonde e molto più grandi, si confondono nella conformazione della roccia. I piani inclinati delle rocce argillose incontrano un torrente dove alcune ragazze stanno lavando, ma vedendomi arrivare scappano per paura di essere fotografate.
Mentre ritorno verso la ciuca un gruppetto di bimbi appena usciti da scuola mi viene incontro, uno di loro con la faccia da primo della classe mi racconta dei dinosauri e mi fa vedere delle impronte che non avevo visto. Serena mi chiama, Segagnana si è buttata in terra con tutto il carico e non vuole sapere di alzarsi, proviamo a tirarla su con la shuarì in groppa, ma non c’è niente da fare, bisogna sciogliere tutto, scaricare e farla rialzare praticamente di forza. Una volta pronti si riparte, attraversiamo un paese molto suggestivo, dove ci sono tante persone sedute a parlare sulle grandi spianate di roccia rossa fra le case, cerchiamo invano un po’ di cibo per l’asina. Proseguendo ci troviamo a camminare insieme a un bimbo che sta portando al pascolo una decina di pecore e un altro ragazzino con un grande asino che ci propone uno scambio alla pari: il suo asino per Segagnana. Di primo impatto sembrerebbe un affare l’asino è grande e robusto, ha una bella sella, una grande shuarì e un bel morso di cuoio, ma guardandolo meglio è così vecchio da essere sdentato. Comunque Abdul si dimostra simpatico e gentile, ci procura il mangiare per Segagnana ritornando in paese a riempire la nostra balla e poi ci propone di andare a dormire da lui dicendo che ha due case, una dove vivono lui e la sorella perché i genitori sono morti e un’altra. Ci propone anche un tajine preparato dalla sorella, però in cambio vuole un passaporto per l’Italia dove vuole andare per fare il muratore, guadagnare tanti soldi e tornare in Marocco per farsi la casa grande. Serena gli chiede perché tutti i marocchini vogliono venire in Italia a lavorare e non in Francia o Spagna e lui risponde secco: “perché lì la polizia ti rimanda indietro!” con un po’ di rimpianto decido di proseguire, sarebbe stata sicuramente una serata interessante, ma è ancora presto, la strada è tanta e il Mediterraneo è lontano. Attraversiamo un piccolo villaggio, poi guadiamo un torrente e torniamo a salire, l’ambiente è sempre più selvaggio e gli olivi sono sostituiti dai ginepri. Anche noi dobbiamo mangiare, in alto sulla strada c’è un piccolo villaggio con le solite case di pietra e fango, ma con un piccolo minareto rosso e bianco.
Vado su cercando qualcosa da mangiare, prima nella direzione della moschea dove chiedo a un anziano dove posso trovare del cibo, ma mi fa capire che lì cibo non ce n’è, mentre mi sposto verso l’altro lato del villaggio rimango colpito dai canti che provengono dalla piccola moschea, sembrano quasi dei suoni tribali e prima d’ora non avevo sentito mai niente di simile. Sopra un tetto ci sono delle specie di piccole tende fatte con legni piegati che sembrano i tipì degli indiani, ma in realtà sono “le abitazioni” di polli e tacchini. Mi sposto verso una specie d’aia dove ci sono due donne sedute su due balle mezze vuote, quando mi avvicino, forse perché ho la macchina fotografica al collo, fanno per andare via, chiedo a gesti qualcosa da mangiare, allora una torna indietro e mi dice di aspettare. È molto anziana, ha due fregi sulla fronte e sul mento e i palmi delle mani completamente tatuati, ma la cosa che colpisce di più sono gli occhi celesti. Dopo poco vengono due donne da due case diverse, una mi porta un pane, l’altra un pane con una ciotolina d’olio, le ringrazio, gli offro qualche dirham per sdebitarmi, ma loro dicono di no, devo insistere per lasciargli qualcosa. Scendendo verso la strada dove Serena mi sta aspettando con l’asina, da una casa esce una ragazza molto giovane, avrà al massimo diciottanni, con un volto bellissimo e un bimbo in grembo tutto fasciato di bianco.
Col pane nello zaino cominciamo a risalire una strada che sembra scollinare su un picco a un paio di chilometri, ma in realtà arrivati lì sale ancora molto. In cima al passo, dove il paesaggio comincia essere da vera montagna, scendiamo in una valle verde alla fine della quale vediamo un altro villaggio. Facciamo un tratto di strada con un gregge di pecore e le sue pastorelle che sono affascinate da Serena, penso che sia la prima volta che vedono un’europea con un’asina. Attraversiamo il villaggio, ogni volta la sensazione di isolamento è sempre maggiore, camminiamo ancora un’ora poi ci spostiamo in un bel pianoro e montiamo la tenda.
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Piove, cosa rara in Marocco, chiudiamo gli zaini e ci prepariamo a lasciare Demnate… ecco perché piove!!! È stata una sosta lunghissima, ma necessaria per fare ordine e mettersi in pari. Vado a prendere Segagnana che, come all’andata, si fa tutto il corridoio dell’albergo trainata come una slitta. Carichiamo il bagaglio nella shuarì e si parte. Mi ero dimenticato quanto si divertono i marocchini a vederci passare con l’asino, partiamo tra le risate generali con una nuvola di bimbi al seguito. Il souk è come paralizzato dal passaggio dell’asino (eppure è pieno di asini), ma non c’è niente da fare siamo la grande attrazione comica del giorno: la gente esce dalle botteghe, esce anche il barbiere e il suo “paziente” col bavaglione, tutti ridono divertiti, anche le persone anziane, solitamente serie e impassibili, approvano con lo sguardo la scelta del “mezzo”, dalla folla spunta un marocchino tecnologico che mi fotografa col telefonino. Attraversiamo tutto il paese con Segagnana che trotta pimpante e sembra contenta di essersi rimessa in marcia. La pioggia aumenta, ripassiamo da Imi Nifri dove iniziamo a salire su una piccola strada, troviamo le indicazioni di un bivacco e ci fermiamo, mettiamo l’asina in un recinto e portiamo gli zaini nella camera. Dopo un paio d’ore usciamo… e l’asina un c’è più! Mi metto subito alla ricerca, ma dopo pochi minuti vedo Segagnana rientrare trascinata dal ragazzo dell’ostello, mi dice che l’ha trovata oltre il ponte, che stava tornando a Demnate. Contenti per lo scampato pericolo andiamo a mangiare tangando per bene l’asina |
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Stamattina andiamo alle cascate d’Ouzoud sono le più grandi del Marocco, le raggiungiamo con un trasferimento di un ottantina di chilometri con un taxi collettivo.
Il paese è piccolissimo, c’è un torrente che scorre placido fra gli olivi secolari dove le donne vanno a lavare i panni, seguendo il corso d’acqua si arriva rapidamente alle cascate, dove il torrente si tuffa nella gola come inghiottito silenziosamente dal vuoto, ma basta spostarsi lateralmente di pochi metri per ammirarne la scenografica bellezza ed ascoltarne il fragore.
Scendiamo fino al fondo valle dai fianchi ripidi per andare a vedere le grandi pozze, è un ambiente ricco di vita e colori intensi che alterna “piscine” a cascatelle, in questa zona ci sono dei piccoli campeggi in questo periodo frequentati solo da pochi ragazzi europei. Piano piano arriviamo sotto la cascata, il punto più spettacolare, il fragore dell’acqua, gli uccelli colorati e le scimmie che vivono sui fianchi della gola fanno molto “Africa”, non è una cascata enorme, ma l’assenza di passerelle e corrimano la rendono molto accattivante. Rientriamo a Demnate per l’ultima notte in questa località che ci ha ospitato lungamente, domani finalmente si parte con “Segagnana”.
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