|
Come sempre nelle case contadine ci si alza con il sole, ho un gran sonno e vorrei dormire di più ma non posso condizionare la giornata della famiglia specialmente in un momento importante come quello della mietitura. Facciamo colazione e poi preparo le torcie per noi e per Mohammed che ci accompagnerà alla grande grotta di Kef el Ghahar che Hafif ci conferma essere lunga più di sei chilometri. Ci avviamo verso la voragine scendendo verso il torrente dove nelle anse ci sono numerosi pesciolini, poi iniziamo a risalire fino al vero e proprio ingresso. È una montagna sezionata, una grossa fetta è collassata e permette di vedere le tante grotte delle venature interne, sembra un macroscopico plastico di un termitaio, entriamo nel ventre della “pacia mama”da una grande fessura dove volteggiano custodi corvi e pipistrelli. E’ un luogo solenne, lievemente tetro, affascinante perché assolutamente selvaggio, ho come una terribile visione: questo “luogo sacro” profanato dal turismo di massa con inciso sopra la porta il nono verso del terzo canto dell’inferno dantesco “Lasciate ogni speranza voi ch‘entrate” a offesa di Dante e della Grotta e poi corde, cavi, passerelle, cartelli e bancarelle con le stalagtiti di plastica da vende’ ai turisti. Mi sveglio dall’incubo che siamo già dentro, è un ambiente enorme le nostre torcie non riescono darne la dimensione i fasci si perdono nell’oscurità, ci sono pozze di acqua ferma e trasparente che sembrano lastre di ghiaccio, tanti rigaglioli di acqua corrente e enormi concrezioni dalle forme fantastiche, non ho un attrezzatura fotografica che mi permette di documentare la grandiosità del luogo. Ci sono enormi bocche con denti di orca, teschi e teste di drago, è una sorpresa continua. Nel silenzio ovattato si sente rumori di passi nell’acqua che si avvicinano, è Abdulhal il fratello più grande che sta arrivando, cammina agile fra pozze e scogli scivolosi con le sue ciabatte di plastica. Attraversiamo una serie di gole strette adornate da cascate di stalatiti multicolori, poi attraversato un laghetto entriamo in una grande camera dai confini indefiniti, Abdulhal con un colpo di teatro illumina la grande sala dando fuoco a una fiaccola fatta con i resti di una pressa di frantoio unta d’olio, e come per miracolo appaiono decine di stalagtiti bianche, un laghetto algido e enormi colonne marroni che sostengono la grande sala. La magia della potente torcia dura poco, continuamo l’esplorazione, c’è sempre più acqua, un vero e proprio fiume sotterraneo, dopo avere attraversato un tratto stretto e sinuoso fra levigate rocce scure, ritroviamo un‘altra grande sala che viene nuovamente illuminata con l’ultima torcia oleosa in modo da regalarci un'altra spettacolare visione su stallatiti e sagome tozze velate da una tenda di goccioline che viene giù dalla volta buia. Ancora gole strette poi inizia a filtrare la luce, si risale verso la luce fino a trovare l’uscita dove svolazzano decine di pipistrelli. Si esce da una grande spaccatura nella roccia rossastra dall’altra parte della montagna e ci si trova dentro una radura coltivata a grano, poi si sale ripidamente tra i cisti fioriti e lentischi che nascondono decine di grotticelle. È la stessa macchia dell’Elba ma con due tipi di cisto (mucchio) in più, uno rosa e uno bianco. Si inizia a scendere girando verso destra, per ritornare sul lato di partenza e si sbuca alti su un affaccio panoramico che domina decine di colline tutte coltivate a grano, siamo in corrispondenza del punto di partenza ma circa quattocento metri più in alto. Intorno ancora grotte, camminiamo su un solco scavato nella parete rossa, da cui si vede l’ingresso della grotta dall’alto, mentre passa un grande falco, poi si scende da un sentiero friabile a picco sulla casa, intorno i bimbi pastori che camminano insieme alle capre su sentieri impossibili mentre più in basso altri sono impegnati nella raccolta del grano.
Solito invito a rimanere qualche giorno, e poi i saluti e la partenza, Tambone zoppica, ieri sera è scivolato ma non sembrava niente di grave, ma oggi specialmente in discesa ha un passo claudicante, per fortuna dopo un’oretta da sciancato ricomincia a marciare discretamente. All’improviso fra i campi un enorme edificio dissonante con tutto il contorno, proprio come la palestra di Pomonte ma grande almeno venti volte: è una scuola enorme, costruita, come spiega il grande cartello all’ingresso, con l’aiuto del Giappone, è dotata di tante strutture, peccato che è inutilizzata anche perché troppo grande per le esigenze della zona. Saliamo verso il paese di Kef el Ghar (Il souk), c’è un bar con un pergolato da dove ci chiamano, c’è un uomo che parla bene francese che ci saluta e ci invita a sostare, è un funzionario governativo e rappresenta l’autorità nel paese, ci aspettava ieri e la nostra sosta alle grotte lo ha spiazzato. Ci fa le solite raccomandazioni ma è molto gentile e ci disegna una minuziosa mappa ricca di particolari per proseguire lungo i viottoli evitando la strada. Segueno la preziosa mappa lasciamo la via e prendiamo un sentiero che ci porta verso un fiume, tra grano e olivi, sotto lo sguardo delle donne che si spostano da un campo all’altro cantando. Guadiamo su un bel ponte di legno e iniziamo ad attraversare il douar Oulad Bchir, un villaggio invisibile finchè non ci sei dentro, sempra un paese segreto costruito sotto gli olivi, è un luogo pacato e ombreggiato con tanti frantoi sparsi un po’ dappertutto, una delle case è un microscopico bar dove si ritrovano i ragazzi del douar, chiedo informazioni e Azzedine il più curioso ci accompagna sulla giusta pista, risaliamo l’altro lato della valle, verde e rigogliosa, c’è anche una cascatella da dove si lancia nel vuoto un serpente spaventato dal nostro passaggio. Camminando in fila indiana sotto gli olivi arriviamo alla sua abitazione, all’inizio del Douar di Bni Krama, è una casa bella curata, circondata da un cannicciato, con una grande aia e tuttintorno all’ abitazione una piazza liscia e pulititissima, è una casa speciale è marocchina ma allo stesso tempo è famigliare, ci accolgono sorridenti la sorella Hayshia e la mamma Fatima, e poco dopo arriva il babbo Ahmed che avevamo incontrato sul viottolo. È un luogo sereno e rilassante e ancora di più lo sono le persone, accogliamo volentieri l’invito a rimanere qui. Con Azzedine andiamo a fare un giro nei dintorni, ci affacciamo da una spianata di rocce bianche che dominano un grande panorama sul oued e le montagne circostanti, passiamo vicino alla tomba della nonna ai bordi del bosco, all’ombra di un grande albero e poi scendiamo verso la cascata per un ripido viottolo prima circondato da olivi e orti coltivati in stretti terrazzamenti (saltini) e poi nella macchia dominata dagli oleandri e da gigantesche piante di vite abbandonate, ricordo dei vigneti dei coloni europei che ormai fanno parte della macchia. Al rientro dalla cascata ci aspetta una ricca merenda, con tanti dolci preparati da Hayschia.
La casa è un mix perfetto di tradizione, armonia e confort, Ahmed ha lavorato tanti anni in Francia ed ha aggiunto confort europei alla sua abitazione che è un’eccezionale modello di casa ecosostenibile: il forno esterno è il cuore, serve per il pane, per cucinare e per scaldare l’acqua, che qui è corrente perché è stata allacciata una sorgente in alto. La doccia è uno spettacolo, con la stanza riscaldata dal vapore del bollitore del forno, il tubo dell’acqua fredda che arriva direttamente nella stanza dalla sorgente e un pentolino per prendere l’acqua calda da un bidone per miscelarla a gradimento, mentre l’energia elettrica è fornita da un impianto solare.
Cena in giardino, l’invito a rimanere qualche giorno per conoscere bene queste valli è duro da rifiutare, ma decido di continuare e partire domattina, anche Azzedine verrà con noi fino a Tainaste.
|
TagMaggio 2008
|
Bumm bumm chiamata bussata prima dell’alba, il capo famiglia ci sveglia, mi affaccio e vedo che il figlio più giovane ha dormito in giardino per fare la guardia a Tambone. Dopo le rituali abluzioni mattutine e la colazione usciamo con il nostro anziano tutore che con passo spedito avvolto nel suo jalabah marrone ci accompagna per tre chilometri fino al fiume, il confine della sua giurisdizione, mi indica il cammino con ampi cenni e si raccomanda di dormire solo nei villaggi grandi e di chiedere del cher (sindaco) appena arriviamo in paese.
Il oued è in gran parte secco, solo a tratti appare l’acqua e anche qui come nei fossi di Pomonte e Patresi proliferano i tubi neri di polietilene. Lascio il fiume ed inizio a salire un viottolo in mezzo ai campi dove stanno mietendo il grano con le falci, la roccia è chiara, prevalentemente calcare e ci sono numerose grotte, il viottolo si perde fra i campi e subito dopo ne ripartono altri che vanno in tutte le direzioni. Chiedo informazioni a un uomo che sta mietendo in compagnia di una splendida bimba dai boccoli biondi, qui non parlano come nell’Atlas però il sistema è sempre quello, la direzione verso il prossimo paese dai viottoli, trek (cammino) El Khemis el Brarha (paese) la godron (no asfalto), tutto accompagnato da ampi gesti lenti e la risposta con altrettanti gesti che poi sono insieme agli sguardi il vero linguaggio: la (no) la, ahh ! (lì va bene) e poi le solite domande palmo della mano destra rivolto verso l’alto fronte arricciata e occhio perplesso e stupito (oh che cazzo ci fai te qui?) dove hai dormito, è tuo il mulo, quanto l’hai pagato, dove vai ? che cerchi? mzien (bene), zwina (bello), bravo. Mi indica un viottolo che scende fra il grano dorato in direzione del fiume, è giovane ma il volto è segnato da rughe profonde e non ha quasi più denti, miete e lega le fascine di frumento, mentre la bimba raccoglie piantine di piselli selvatici e ne mangia i semi, i chicchi più ambiti dai bimbi di queste parti. Il viottolo cammina lungo il fiume dove ci sono tanti tamerici, ci sono anche tanti uccelli: garzette, cicogne, falchi, ma il protagonista volante è il grande avvoltoio bianco con un poderoso becco giallo che vola maestoso davanti a noi. Avanziamo nel terreno ciottoloso, dove c’è più acqua le donne lavano e riempiono i contenitori da portare a casa, un ragazzino che gioca a golf con una grande radice lanciando nell’acqua i sassi mi indica il cammino. Lasciato il greto ricominciamo a camminare fra i campi di grano, è un paesaggio tipicamente agricolo dominato da grano e olivi, Tambone non va nonostante le grandi mangiate di grano, è nervoso, irritato dal caldo e da mosche e tafani, provo a camminargli dietro senza tenerlo per la fune come fa la gente di qui, il risultato è che scappa in un campo di grano e inizia a razzia’, gli corro dietro ma va più di me, nel frattempo nei campi intorno il lavoro s’è fermato per lo spettacolo, lo prendo per la coda ma comincia a scalcia’ e per poco non mi leva, salta, il carico va giù rimanendo legato alla sella, il tonto si sente soffoca’ e si ferma. Alla fine del rodeo, la sella è ormai tutta sfatta e rimettere il tagrart è sempre un’ impresa. Il bestio sta crescendo, è diventato tutto corto, abbiamo cambiato il morso, riferato gli zoccoli e tagliato un pezzo di sella per risagomarla, ma ora dopo questa cura è completamente schiantata, però si so’ divertiti in tanti, sorrisi, risate e saluti che sbucano dalle spighe ci accompagnao alla ripartenza. Pensavamo di prendere qualcosa per mangiare nel primo douar ma in realtà sono solo poche case sparse e la gente è quasi tutta nei campi, Serena vede che in una casa stanno sfornando il pane da portare nei campi e si avvicina, le donne la chiamano al forno e gli fanno una grande festa, con baci e abbracci, mi godo la scena a distanza, in una casa di sole donne la mia presenza sarebbe inibente. Ci invitano a fermarci per il pranzo, come sempre nelle campagne, e prima del saluto le regalano un bel pane ciatto caldo e fragrante quanto mai gradito. La via lascia il fondovalle e inizia a salire, fa caldo per fortuna ogni tanto si inconta l’ombra degli olivi. Dai pendii ripidi scendono le melodie delle donne che mietendo cantano infiniti cori ritmati che trasudano di orgoglio e fatica, tanta fatica, ma positiva e allegra. Sulla via si incrociano asini con enomi carichi di grano tenuti fermi da un intreccio di corde che forma una rete a maglie larghe, è un lavoro che si ripete uguale chissà da quanto tempo, ma ogni tanto c’è un tocco di modernità naif come quando passa in sella a un ciuchino un omino col vestito tradizionale che sta chiamando dal telefonino (raccontando divertito dell’inusuale incontro: noi). Si apre un panorama maestoso verso nord, le grandi e ripide montagne del Rif. Pausa di un’ora sotto gli olivi per ripararsi dal sole e poi si sale in direzione di El Kemis, un paese che non esiste come capita spesso in Marocco, dove con il nome si indica una zona non ben definita, come se all’Elba ci fossero le indicazioni per Valdiruta, la Galea, Caubbio. Ci sono dei campi, El Kemis è al di qua del fosso El Brarha di là, in questa zona i coltivi sono così ripidi che la gente miete falciando con la schiena dritta, lavorano nei campi a “solana” perché a “ombrìa” qui in alto il grano è ancora verde. Proprio sul fosso, dove convergono le due valli c’è il piccolo perfabbricato della scuola che raccoglie i bimbi della zona, stanno facendo lezione, il maestro è un ragazzo arabo, che non mi sa dire niente a riguardo di dove siamo, l’unica cosa che capisco è che lui è qui perché ce l’hanno mandato, per fortuna che ci sono i contadini analfabeti, con loro ci si capisce sempre. Si sale ancora seguendo le indicazioni dei “fratelli berberi” con i loro guanti protettivi fatti di tronchetti canna tagliati a metà per difendere la mano che agguanta le spighe. Si sale fino al culmine di un colle tutto coltivato, qui il grano è ancora verde verde, davanti a noi una grande montagna grigia che ricorda nella forma il monte di San Bartolomeo sopra a Chiessi. Si scende fino ad arrivare al paese di El Chouyyab, c’è un piccolo emporio seminascosto da un enorme fico (almeno il doppio di quello dell’Enfola), è chiuso ma chiamano subito il proprietario che apre per noi, sembra che qui turisti (o viaggiatori che suona molto più bello e poetico) non ne hanno mai visti, in un attimo s’è fatta gente che è venuta a vedere “gli alieni”, sono tutti molto gentili soprattutto le persone anziane che sono sempre prodighe di consigli e raccomandazioni, “fransè fransè” dico che sono italiano e divento fransè italiano, perché nei posti “veri” fransè sta per europeo, è come continentale, uno prima è continentale poi po’ esse’ di Piombino, di Milano, di Bruxelles…. Riroviamo una strada, a destra per Taza, a sinistra per Kef El Ghar la nostra meta. La strada è piatta e cammina lungo il fiume circondata da grandi alberi, chiedo delle grotte, qui in zona ci dovrebbero essere delle grandi grotte, le informazioni sono diseguali ma la direzione è quella giusta, la zona è ricca di grotte e quando ricominciamo a salire sembra di vederne dappertutto. Poi si presenta in lontananza una montagna spaccata, con delle imponenti pareti rosse, si respira che è un posto speciale, un omo grosso su un ciuco piccolino mi conferma che le grotte sono lì. Non rispetto le consegne del chir, invece di andare verso il villaggio di Kef El Ghar mi dirigo verso la montagna dalle rocce rosse passando da un sentiero tra campi di grano e olivi. Ci sono case sparse e un ingegnoso ed articolato sistema di canali per l’irrigazione, è ormai sera, ci sentiamo gli sguardi di tutti adosso, ma è impossibile incrociare sguardi, solo i bimbi come sempre curiosi cercano con gli occhi ma sempre a distanza. Arriviamo alla montagna spaccata, sotto scorre un fiume e sopra c’è l’ingresso di una grande grotta dove volteggiano eleganti e tetri decine di corvi, è ormai quasi buio, e c’è aria di temporale ora bisogna cercare da dormire, da una casa risuona altissima la musica di una radio, sembra un richiamo, mi avvicino e il padrone che sembrava in attesa ci accoglie con entusiasmo, arrivano anche i figli e in un attimo ci ritroviamo comodamente distesi nel salone mangiando pane, burro e marmellata e sorseggiando thè. Inizia a piovere forte, come sempre siamo fortunati, siamo ospiti di una famiglia generosa e simpatica, Hafid il babbo è entusiasta della nostra presenza vuole sapere del viaggio e delle differenze fra la gente incontrata in Marocco, ha quaranticinque anni e è un tipo tutto muscoli e nervi come sempre si passa la serata dialogando con un linguaggio inventato e facendo foto. Domani andremo a vedere la grande grotta guidati dai ragazzi grandi di casa.
|
|
Sveglia all’alba, colazione, il paron mi dice di seguirlo, mi porta in ferramenta per comprare due metri di catena e due lucchetti per legare il ciuco nei prossimi giorni. Si carica Tambone e si parte, la strada che fiancheggia il fiume è ancora asfaltata ma praticamente senza traffico, al oued una bimba entra nel fiume con l’asino e poi senza scendere di sella cala il secchio nell’acqua e riempie i grandi bidoni posizionati dentro la scuarì , c’è poca acqua e gli uomini e gli animali (ci sono le greggi delle capre ad abbeverarsi) se la dividono. La strada è circondata da campi di grano ormai in gran parte mietuto, dopo un paio d’ore incontriamo una scuola a bordo strada, penso di fermarmi per parlare di “Base Elba”, gli insegnanti non ci sono, a fianco stanno costruendo un edificio e sono lì a chiacchera, ma arrivano subito dopo. L’accoglienza non è delle migliori “questa è una scuola mussulmana e voi non siete mussulmani, che ci fate qui?” Per la prima volta “Base Elba”non viene accolto bene, anzi “voi siete pericolosi per noi e per i nostri ragazzi, contaminatori, questo Base Elba è un progetto pericoloso, quale è il vero motivo per cui sei venuto qui? credi di fregarmi perché hai la barba lunga e sei vestito come un marocchino, ma non sei un mussulmano e ti atteggi a profeta senza Dio, la razza peggiore un uomo senza timore di dio è pericoloso” e da qui una lunga discussione religiosa filosofica su le genti del libro, santi e profeti, dove riesco a difendermi bene grazie al grande fascino che ha sempre esercitato su di me Aissa da noi conosciuto come Gesù e qui venerato come secondo profeta che ha preparato la venuta di Maometto. Riesco ad esprimere il mio rispetto per l’Islam e la voglia di conoscerlo meglio attraverso lo studio del corano, desiderio che ha preso corpo grazie alle tante persone generose incontrate durante questo viaggio, soprattutto gli Amazigh dell’Atlas. I due insegnanti piano piano si ammorbidiscono pur rimanendo rigidi,” le vostre donne vanno in giro nude per provocare e si accoppiano come i montoni”, “gli amezigh non sono buoni mussulmani considerano gli arabi degli invasori” e ancora “è inutile viaggiare e scambiare contatti quello che è giusto è tutto scritto nel Corano” ma anche “i buoni e i cattivi ci sono da tutte le parti” e “il vostro viaggio è una cosa buona” Alla fine di una lunga discussione di oltre un’ora ci salutiamo scambiandoci gli indirizzi e con l’augurio di proseguire nel migliore dei modi il viaggio.
Fa caldo il cielo è terso, non c’è vento e il sole picchia a piombo, arriviamo al primo bivio nei pressi di un paesino, c’è un grande albero, finalmente un po’ d’ombra. Al fresco dell’alberone ci attende sorridente un motociclista che ci aveva superato qualche ora fa, si presenta parlando spagnolo e mostrandoci i suoi documenti dice che è l’uomo del governo che ci deve proteggere fino a Ras el Oued, soliti convenevoli, poi lo salutiamo lasciando la strada asfaltata. Arrivati al guado veniamo raggiunti dal motocommissario che ci invita a fermarsi per rispondere ad alcune domande, arriva il suo superiore a bordo di una uno bianca, solita trafila, controllo documenti, invito ad andare via, “cosa portate sul mulo…..perché proprio qui che non c’è niente da vedere”. Ci consiglia di andare a dormire nella casa del motocommissario, ma ringraziando declino l’offerta e proseguiamo. La pista dura poco e ci ritroviamo sulla strada asfaltata dove ci attende sorridente il commissario a cavallo della sua suzuki, ci rinnova l’invito ad ospitarci, ci accompagna per qualche minuto e poi prosegue, lo ritroviamo dopo pochi chilometri in un piccolo chioscho sulla via dove ci invita a sostare, è sempre sorridente ma comincia a essere scocciato. Fa sempre più caldo, nei campi radunano la paglia poi la ricoprono con dei grandi teli di plastica e sopra ci spargono un impasto di fango argilloso che fa da tetto, che fanno assomigliare questi pagliai alle baracche dei minatori alla miniera del ginevro.
La strada è pressoché pianeggiante e rincontra spesso il fiume, sotto un ponte faccio una pausa defecante, subito dopo dietro un albero c’è motobaffo fumante che attende. Ormai sono diverse ore che si cammina e Tambone comincia a rallentare di brutto. Si ferma un furgoncino, esce un ragazzo, la prima domanda è: “voi non siete mussulmani?” la seconda: “perché siete qui?” Iniziamo a parlare, è un tipo simpatico, ci invita a seguirlo su una pista che risale una collina e che ci eviterà un bel pezzo d’asfalto. Arriva il motocommissario, non è d’accordo con la deviazione, ma dopo qualche minuto si convince dopo aver preso il numero di cellulare del ragazzo. Hassan mi chiede se non abbiamo paura di Bin Laden, gli spiego il mio punto di vista sul personaggio che che dal punto di vista mediatico è stato creato dagli americani, così come l’11 Settembre è stato organizzato per per creare un clima popolare che favorisse la guerra. E’un ragazzo intelligente che studia storia, concorda con me sull’ importanza della libertà di stampa e sull’enorme potere rivoluzionario che possiede internet, ci invita a casa sua per una pausa merenda, appena scaricato il Targrat, arriva la telefonata del motocommissario che ci obbliga a tornare subito sulla strada, un saluto veloce alla famiglia che ci regala pane, acqua e una bottiglia di latte appena munto, si ricara e si parte. Il nostro “angelo custode” ci aspetta dove inizia la pista sterrata, dice che fa questo per la nostra sicurezza e che fino a che saremo nella sua zona di competenza ci deve scortare perché ha ricevuto questi ordini e che non mi devo arrabbiare, lo lascio a discutere con Hassan e ripartiamo,ma non passano che pochi minuti e rieccolo, solita solfa di scuse e poi via, lo ritrovo dopo una ventina di minuti nei perssi di un mulino dove stanno macinando, dalla moto mi fa cenno che sono autorizzato a prendere la scorciatoia nei campi. Ormai le ombre si sono allungate, sotto un albero la sagoma di un uomo che fuma, la moto parcheggiata poco più avanti mi conferma che motobaffo è ancora in missione. Le montagne del Rif sono vicine e molto belle nella luce del tramonto, un anziano signore elegantemente vestito di bianco mi conferma che siamo arrivati a Rasel Oued, entro in paese accompagnato da un gruppo di bimbi che sta tornando nel villaggio con i ciuchini dopo aver preso l’acqua al fiume. Arriviamo nella polverosa piazza del souk dove sono radunati una cinquantina di uomini, motobaffo finalmente rilassato mi presenta alle autorità del paese, l’anziano reggente e il suo vice, che ci invitano a seguirli subito per sistemarsi per la sera. Lasciamo sorrisi sgloriati e sdentati dei paesani nascosti in una nuvola di kif e seguiamo le autorità. Questa notte dormiremo nella casa del “Chir” un anziano signore che è il referente del re per il paese. La porta si apre in un ampio cortile dove Tambone finalmente senza carico viene ricompensato con fasci di grano appena mietuti. È una grande casa e veniamo accolti come nababbi, rinfrescata e poi grande merenda con the, dolci e uova lesse. Arriva anche il commissario che ora è tutto rilassato e sembra un altro, ci danno una grande camera e poi ci trasferiamo nell’aia che con grande rapidità, stendendo stuoie e tappeti e cuscini, diventa una grande sala all’aperto. Con la moto al sicuro dentro il giardino del capo, motobaffo si rilassa e smessi i panni dell’uomo di legge si trasforma nel commissariocannone, mi racconta del suo soggiorno in Spagna e mi traduce le domande e i consigli del padrone di casa che ordina continuamente alle tante donne del suo “harem” (un paio di mogli e qualche nipote) di portare the, frutta e dolci. Sono ormai le dieci quando ci portano un pollo arrosto e un vassoio di popone, tutto eccelente, come un pascià mi godo il venticello fresco disteso fra il banano i limoni e i girasoli giganti mentre poco più in là il commissariocannone fumatosi l’ennesimo trombone si è addormentato placido sotto le stelle.
|
Smette di piovere verso le dieci, intanto che asciuga la tenda provo a sellare Tambone, ma inizia un rodeo, non ne vole sapere, scalcia e corre da tutte le parti, lo spettacolo dura una mezz’ora abbondante, il merda si diverte a fammi fa’ la figura del grullo, gli giro intorno per bloccarlo con la corda, ma lui gira insieme a me e rimane sciolto, alla fine si stufa e lo blocco, mentre lo tengo legato come un salame Serena gli mette la sella. Lasciata la casa ci ritroviamo nel traffico della via per Ketama che ci accompagna fino al bivo per Tissa, nei pressi di una collina rossa dove si vedono le tracce delle gallerie delle miniere di sale. Lasciato il “gran grodon” scompare il rumore di sottofondo del traffico, intorno nei campi mietuti pascolano mucche e pecore. Oggi è giorno di souk ma ormai è tardi, entriamo nel paese che stanno smantellando gli ultimi banchi. Tissa è famosa per gli allevamenti dei cavalli ma cavalli non se ne vede, comunque trovare un maniscalco per ferrare Tambone non è un problema, un anziano mi si avvicina girando il palmo della mano (cosa vòi), gli indico gli zoccoli e schiaccio i palmi della mano, yallah (andiamo) e lo seguo in un vicolo fangoso. Cinque minuti e arriva il “calzolaio”, dentro una borsa fatta con mezzo copertone tutto l’occorente, un punteruolo a culo largo che fa da incudine, i ferri , il martello con la penna, la sgorbia e i chiodi e un mollettone che strinto sul muso del mulo miracolosamente lo anestetizza, dieci minuti e il lavoro è fatto, Tambone è pronto per il Rif. Ci piazziamo nell’unico albergo di Tissa costo totale 2 euro, vado a legare Tambo in compagnia del ragazzo che ci ha accolto nel piazzalino dietro l’hotel dove si apre una finestra sul bar sottostante, sbircio e assisto alla divisione di un mattone scuro di hashish. Andiamo a mangiare qualcosa, Tissa non è bella ma come tutti i posti non turistici è vera, troviamo un ristorantino (che vuol dire una griglia sopra un vecchio bidone, dei tavolacci e qualche panca), che ci cucina una ciccina ottima, il cameriere tutto sdentato sa già tutto di noi, al ristorante c’è anche una donna completamente velata che mi da le spalle per tutto il tempo. Tissa è un paesone misteriosamente pieno di negozi di fotografia, ce ne saranno una ventina, facciamo un giro alla ricerca dei famosi allevamenti, ma troviamo solo la spianata del famoso carosello e trebbiatrici a lavoro. Torniamo all’hotel dove nel frattempo è arrivato il paron, un omone scuro e baffuto che spicca per gli occhi chiari, poco dopo arriva anche il responsabile dell’ammministrazione, l’equivalente del vice sindaco, che ci accoglie con fare finto gentile e sorrisino da iena, “qui non c’è niente da vedere niente per i turisti, niente alberghi, niente ristoranti, questo non è un hotel autorizzato, cosa siete venuti a fare a Tissa? cosa cercate? perché avete un mulo? chi vi ha detto di questo hotel….” , ci controlla i documenti e vuole sapre perchè sono in Marocco da così tanto tempo, però non ascolta o comunque non crede a quello che gli dico, continua dicendo che è una zona pericolosa e è meglio andare via. Ci dice di attendere che ritornerà a breve con il capo della gendarmeria (i carabinieri). Anche il maresciallo fa la solita tiritera “le persone qui sono pericolose, non c’è niente da vedere” cosa portiamo nei bagagli, non si può dormire nelle case, quando si entra in un paese bisogna sempre avvertire le forze dell’ordine, mi mette all’erta perché a fine giugno mi scade il permesso di soggiorno in Marocco, e poi iniziano a scrivere tutte e due le stesse cose, nome cognome….nome del babbo, nome del babbo della mamma e tutti i paesi visitati in Marocco. In realtà il maresciallo fa finta di scrivere per accontenta’ lo sceriffo, una volta assicuratisi che domattina ce ne andiamo ci salutano con la raccomandazione di rimanere ben tangati in camera e vanno via sotto lo sguardo assassino del padrone di casa. Salto a internet dove un tipo che parla italiano mi fa il terzo grado, poi il paron mi fa vedere come si lega il mulo a Tissa: catena alla zampa bloccata con un lucchettone e poi legato all’inferriata con un altro lucchettone, oltre alla solita legatura raddoppiata, il povero Tambone rimane bloccato come pietrificato. Mangiamo qualcosa (carne di montone) mentre intorno a noi c’è un gran mercato di kif, le auto si fermano caricano e ripartono: “kif away”. |
|
|
Colazione con i mercatai fassi, due settimane di residenza a Fes el Bali, un ventiquattresimo d’anno, ma gli occhi mercanti di questo cafè guardano solo fino al prossimo cliente e non lasciano traccia, un ultimo sguardo a Bab Boujeloud e poi il saluto alla medina ancora dormiente. Al foundouk ci attende Tambone senza zoccoli e senza criniera, strigliato e pulito sembra un bimbo a modino mandato a studio dai preti, Il direttore ci accoglie con tanta gentilezza, così come tutto il personale, ci aiutano a caricare il bagaglio e raccomandandoci prudenza nel Rif ci chiedono di mandare notizie di tanto in tanto. Avanziamo nel traffico del grande raccordo anulare della città vecchia, piove, senza i ferri Tambone avanza meglio sull’asfalto, ma una volta arrivato a Tissa lo devo far ferrare. Ci vuole più di un’ora per lasciare le mura esterne della medina, poi inizia la fertile campagna a nord di Fes bagnata dal Oued Sebou. Dal fiume le grandi ruote idriche convogliano l’acqua nei canali che irrigano i coltivi, dove la gente sta mietendo il grano, avanziamo fiancheggiando la strada asfaltata, colline aride e colorate si alternano a campi di grano, è un paesaggio morbido di basse colline tondeggiandi. Fa freddo e pioviscola e bisogna fare attenzione ai numerosi gran taxi che a gran velocità percorrono la strada con traiettorie oscillanti. Si mette a piovere forte per fortuna proprio dove c’è un piccolo villaggio, così facciamo una pausa mangiando uova e patate in un microscopico locale sulla via. Si fa gente, sono tutti curiosi, ma gentili e spontanei, è bastato allontanarsi di pochi chilometri dalla città per ritrovare il calore umano. Passato lo scroscione si riparte, continua a pioviscolare e Tambone forse intorpidito dalla lunga pausa non va nonostante le robuste merende a spighe di grano. Le grandi trebbiatrici con le lame più larghe della sede stradale dominano questo paesaggio stondato che si ripete intorno alla strada sinuosa. Arriva la sera, si accendono in lontananza le prime luci di Tissa, specialmente con la pioggia è troppo pericoloso percorere la strada di notte, chiediamo al proprietario di una casa isolata se possiamo montare la tenda vicino all’abitazione e ci viene indicata una piazzola tra il pozzo e la catasta delle balle di paglia, il tempo di legare il mulo e allestire “la Cuccia” che inizia a piovere forte. |
Domani finalmente si parte, bisogna alleggire al massimo il bagaglio in vista delle ripide montagne del Rif, facciamo un sacco con i vestiti superflui e lo portiamo alla scuola, ci penserà Mohamed a distribuire le cose. Devo comprare lo zaino piccolo che porto in spalla, quello vecchio è distrutto e non ce la fa più, il suo l’ha fatto egregiamente il glorioso berghaus rosso comprato alla fiera del turismo verde a Parma il 28 marzo del 1996 lo lascio insieme al resto al liceo linguistico, ma le mille avventure condivise me le porto con me.
Un nuovo zaino, è un marocco tarocco ma è arancio viottolo e non è poco.
Passo gran parte della giornata a scrivere e a leggere le notizie dall’Elba, dove prevalgono i toni allarmanti per la crisi turistica ampliamente annunciata, mi sento un profeta ma non è assolutamente una soddisfazione e “i prenditori”, come li aveva brillantemente apostrofati il saggio Mendolone, che fanno? Se la prendono con Tozzi che dice cose vere, talmente vere da sembrare banali.
|
|
I banchini della frutta vicino a Bab Boujeloud sono ogni giorno più ricchi e profumati, fragole, ciliegie, pesche, albicocche, pere, mele, poponi, cocomeri, arance e limoni, mercanzie impilate con maestria per sfruttare il poco spazio a disposizione. Decine di banchi lunghi due metri con tre mercatai cadauno, uno vende, uno controlla e uno dorme stordito dopo aver aspirato dal dorso della mano una striscia di tabacco di kif. Facciamo una grande spesa di frutta e poi ci prepariamo una supermacedonia.
La nuova macchina fotografica non va, scendiamo alla ville nouvelle per cambiarla, dopo la solita svenante trattativa alla fine ci cambiano la fotocamera.
|
|
|
I mosaici di Volubilis Sveglia all’alba per raggiungere in treno Meknes, la città araba per eccelenza del Marocco. Il treno attraversa una campagna fertile avvolto dalla nebbia e da nuvole basse, arrivati nella città di Mulay Ismail cerchiamo un taxi per Mulay Idriss, la trattativa parte da 350 dirham e si chiude a 10 Dirham a testa. Arriviamo nella città santa che pioviscola e la nebbia nasconde la campagna ricca di campi di grano e olivi che abbiamo appena attraversato. La città prende il nome dal suo fondatore che è anche il padre del Marocco come nazione. Mulay Idris era il pronipote di Maometto, sua nonna era la figlia del profeta, giunse in Marocco intorno al 787 e si installò a Volubilis, allora il centro principale della zona, dove venne accolto come Imam (capo spirituale e politico). Nel giro di cinque anni diventò il sovrano di un regno molto esteso e edificò la sua capitale su un colle in un luogo più difendibile rispetto a Volubilis, successivamente Mulay Idris iniziò anche l’edificazione di Fes che fu poi completata dal figlio Idris II. Venne avvelenato e ucciso dai suoi rivali nel 792 che speravano di elimare con lui anche il suo regno, ma si sbagliavano, le tribù berbere in gran parte pagane, ma anche di fede cristiana e ebrea si convertirono in massa al credo maomettano portato da Idris e sposarono l’idea di un Marocco arabo. La continuità del progetto fu portata avanti da Rashid il fedele servo del sovrano che divenne il reggente finchè il figlio diventato adulto e salì al comando. Da qui in avanti nonostante continue lotte di potere la storia marocchina è proseguita su questo solco. Piove, faccio un giro fra gli edifici bianchi e squadrati dell’agglomerato, Mulay è una San Giovanni Rotondo mussulmana è meta di pellegrinaggi religiosi, qui a differenza di Fes nei pressi del santuario c’è ancora la sbarra che impedisce l’ingresso per animali e cristiani alla zona cultuale. Nella piazza ci sono numerosi chioschi che vendono ceri e incensi per omaggiare il Santo, bancarelle di dolciumi e ristoranti con bracieri per cuocere la carne tutti forniti di ventilatore per ravvivare le braci nel momento della cottura. Nella parte alta c’è il souk ma non è un gran che, invece è notevole il piccolo forno che fa dei dolcini di molto boni. Smette di piovere un’ altra trattativa ridicola e poi gran taxi per Volubilis che qui chiamano Oualili. Dal cielo grigio spuntano le sagone delle colonne dei templi antichi dove le cicogne hanno fatto i loro nidi. Volubilis era la città romana piu remota dell’ Africa, qui finiva l’impero, la porta meridionale si apriva verso l‘Atlante e le terre incognite e si interrompeva il grandioso reticolo delle vie di Roma. La città fu fondata nel 45 dopo cristo sotto l’impero di Claudio che la destinò a capitale della Maureitania e così fu fino al 285 quando le guarnigioni si ritirarono, ma Volubilis esisteva già da molti secoli, qui sono stati trovati reperti cartaginesi del terzo secolo avanti cristo, ma ci sono tracce di insediamenti molto più antichi. Nonostante l’abbandono da parte dei romani ancora nel settimo secolo qui si parlava il latino, era una città abitata da berberi, siriani greci ed ebrei e le chiese sopravissero fino al regno di Mulay Idris. La città rimase comunque un centro attivo fino al XVIII secolo quando fu depredata e in pratica distrutta da Mulay Ismail che trasferì a Meknes i suoi marmi più belli per la costruzione della sua città imperiale . Ci sono pochi visitatori in rapporto alla bellezza del posto, qualche gita scolastica e due o tre gruppi di turisti stranieri, ma all’ora di pranzo se ne vanno tutti e Volubilis diventa ancora più affascinante, arriva anche il sole peccato che le macchine fotografiche vanno tutte due ko. L’immagine dei colonnati che si stagliano sullo sfondo dei campi di grano maturo è una poesia senza tempo. Il sito meriterebbe maggiore cura, soprattutto per gli splendidi mosaici policromi che adornano i pavimenti delle antiche residenze, raffigurano soprattutto gesta di dei ed eroi ma ci sono anche tanti animali. La città era la principale fornitrice di animali esotici e feroci per gli spettacoli della capitale, duemila anni fa qui c’erano leoni, orsi ed elefanti ma probabilmente da quello che si vede nei mosaici anche tigri e ippopotami, quello che sappiamo è che i leoni e gli orsi di barberia furono praticamente estinti per soddisfare le insaziabili richieste di fiere che provenivano dai circhi romani. Nonostante secoli di predazioni e lo stato di abbandono rimane un luogo imponente e monumentale, con templi, archi celebrativi, ville terme, frantoi e ingegnose opere idrauliche. Purtroppo oltre all’abbandono anche qui c’è la minaccia del cemento, proprio accanto anzi dentro il sito stanno costruendo una specie di grande autogrill per turisti. il Marocco sta investendo tanto nel turismo, ma nella direzione del turismo di massa organizzato, speriamo che non trasformino Volubilis in una disneyland. Risaliamo a piedi fino a Mulay Idris e poi nuovamente gran taxi 6 posti per tornare a Meknes, la città di Mulay Ismail. La ville nouvelle è una brutta città europea però c’è il palazzo del gelato dove fanno il gelato più bono del marocco, rispetto a Fes è molto più piccola, in basso la città nuova e in alto oltre il oued Boufekrane che in realtà è un fosso, si estende la medina e la grande città imperiale edificata dal famoso tiranno. Saliamo verso la parte antica che nella parte bassa è un groviglio disordinato di mura in rovina avvolte nella vegetazione. Entrando nella medina e nella Mellah il “casino rimane” è una zona abitata ma priva del fascino storico di Fes con le case costruite dentro e fuori dalle mura antiche una appoggiata all’altra fino a chiudere le vie, con le vestigia storiche inglobate soffocate e dimenticate. Dopo un pò di giri a voto arriviamo al mausoleo di Mulay Ismail, che qui è venerato come un santo, è l’unico mausoleo che gli “infedeli” possono in parte visitare. Mulay Ismail è considerato il più grande fra i sultani del Marocco regnò per 55 anni dal 1672 al 1727. Ismail era un Tiranno spietato crudele e cinico, che si divertiva ad uccidere per diletto anche durante le ispezioni nei cantieri. La sua guarnigione scelta, la leggendaria Guardia Nera, era il terrore di tutti i suoi sudditi, era una guarnigione di 140.000 uomini scelti fra gli schiavi touareg catturati nelle incursioni del suo esercito nelle terre mauritane. Ma era indubbiamente un grande sovrano ed aveva forte il senso dello stato, creò un grande esercito organizzato di cui facevano parte in pratica tutti gli uomini del regno, berberi, arabi, catalani, ebrei e cristiani con cui teneva unito il regno e costruì il Marocco più potente della storia grazie agli schiavi e ai bottini di guerra delle numerose battaglie vinte. Fu un instancabile edificatore, le Kasbah (forti militari) furono costruite su tutto il territorio anche nei posti più impervi, ma il suo morbo edificatorie si sviluppò nella maniera più spettacolare qui a Meknes dove costruì la sua città imperiale, predando materiali da tutto il Marocco compresa, come detto, la vicina Volubilis. Fa un certo effetto visitare la sua tomba che è un edificio religioso e vedere che viene venerato come un santo, però è anche vero che assicurò un periodo di prosperità al Marocco e che da noi nello stesso periodo c’era la caccia alle streghe e si bruciava chi affermava che la terra ruotava intorno al sole e i papi che ordinarono tali efferatezze sono tutt’oggi esposti ben mummificati in vaticano venerati e glorificati. Il mausoleo per quanto pomposo ha rifiniture tipicamente marocchine con grandi colature di imbiancatura sulle pareti finemente piastrellate che non hanno risparmiato nemmeno una bellissima meridiana di marmo incastonata nella muratura. I souk sono anonimi sembrano mercati europei, poi si esce nella grande piazza davanti a Bab Mansour la porta simbolo della città. Si tratta di una monumentale porta che fu progettata da uno schiavo cristiano convertito all’Islam diventato poi architetto del regno. È dominata dalle grandi colonne di marmo predate a Volubilis e arricchita da un’ infinità di marmi intagliati. Tona lampa e fa freddo col paile addosso, non avrei mai pensato di pati’ tutto sto freddo a fine maggio in Africa, sarà anche normale ma io qualche dubbio c’e l’ho. La parte alta della città imperiale è ben conservata ma è tutta interdetta, all’interno delle mura ci sono tante caserme militari dai giardini ben tenuti, c’è anche il grande campo da golf reale con i prati perfetti, anche da qui ci mandano via, ma prima di uscire cedo al richiamo irresistile di lasciare una cacata nel gabinetto lindo dell’esclusivo club. E’ ormai buio quando ripassiamo il fosso, proprio davanti al luminescente Mcdonald dove i tristissimi arabi aspiranti yankee da dentro le loro macchine fanno la fila per prendere il convio da un distributore. Rientriamo a Fes in treno, poso dopo aver camminato per diversi vagoni perché pensavo di essere in prima classe da quanto è pulito e lussuoso. E’ un treno lunghissimo, arriviamo a Fes insieme a tantissime persone, i marocchini si spostano tanto da una città all’altra continuamente per cercare lavoro, e avere famiglie numerose torna comodo perché si hanno parenti in tutte le città pronti ad ospitarti. Alla stazione ci sono tanti taxi, prendiamo un petit e rientriamo nella medina ormai buia. |
Appuntamento a mezzogiorno al cafè Paris con Mohammed per le traduzioni, il francese è praticamente pronto, qualche sottolineatura sulle parole “troppo” isolane, sappe, frullane e cembalaie, ma il lavoro è fatto e ora si parte con l’arabo, sono esaltato da questa cosa e sto pensando di far tradurre Pietro Gori in arabo perché che l’Elba sia conosciuta nel mondo come “l’Isola di Napoleone” mi sta sui coglioni.
Mohammed Elkhatouri insegna alla scuola media intitolata a Ibn Batta un viaggiatore marocchino del milletrecento ed ha 350 studenti che studiano italiano, anche Mohammed Boutriq insegna italiano in una scuola equivalente ha 319 alunni, tutti ragazzi fra i 14 e i 16 anni. Entrambi si sono laureati all’università Mohammed V di Rabat dove c’è l’unico dipartimento di italianistica del paese. Sono affascinato dal loro entusiasmo per l’italia, è emozionante parlare con ragazzi marocchini che conoscono Dante e Boccaccio, leggere i compiti in italiano degli studenti, scritti con calligrafia elegante e precisa ma con i caratteri inclinati verso sinistra all’araba, e sentire delle raccomandazioni del provveditorato a non parlare del vino mai in quanto tabù per l’islam e quindi evitare anche le opere lettearie che ne fanno cenno.
Si parla dell’Elba e delle sue meraviglie naturalistiche e della sua storia, della campagna, della zona di Taza, del ritmo della giornata dettato dal sole, del profumo della terra dopo la pioggia, dei cappelli di paglia e dei racconti dei contadini , della vicinanza fra le culture del mediterraneo.
La ricchezza della conoscenza, lo scambio tra culture diverse pensieri ed idee storie di sintonie e diversità, come una musica un accordare le menti ognuna diversa ma in armonia in un crescendo di futuri scenari positivi. Essere in un cafè di Fes a parlare di Mago Chiò e del Cellerai, di Pietro Gori e di Vitoriugo, del Vangelista e del Bindolo con dei Marocchini lo trovo eccezionale.
Dopo un paio di mesi di tentativi riesco a fare un collegamento video con la casa del mi fratello così posso finalmente vedere le mi nipotine Sofia e Nicol che mi mostra fiera la finestrina nel sorriso, la prova che gli sono cascati due dentini e che sotto stanno già spuntando quelli da grande.
|
|
|
La medina alle sei del mattino è ancora addormentata, c’è un movimento rado e lento di persone silenziose che si avviano a cominciare la giornata. Ci siamo alzati presto per andare a vedere le famose concerie di Fes prima dell’arrivo dei turisti. Scendiamo lungo la Talaa Kebira, una delle due arterie principali della medina, i piccoli fondi sono quasi tutti chiusi e questo fa sembrare il vicolo molto più largo, dopo poche decine di metri un mulo carico di pelli di pecora ci fa capire che siamo arrivati alla prima conceria, quella meno famosa. Anche qui ci sono le guide zecca personaggi che ti si appiccicano addosso per rimediare qualche soldo, questo parla in automatico meno lo cachi e più insiste. Seguendo il mulo arriviamo ad una fonte dove tre uomini stanno lavando le pelli delle pecore con l’acqua incanalata dal fiume Fes, sono gentili nonostante stiano facendo un lavoraccio tutti zuppi e immersi fino ai ginocchi nell’acqua puzzolente. Come temevo arriva la zecca e si mette davanti all’obbiettivo, comincia a spiegare … “qui lavvare le pelli di animali, questa pelle di animale che fa beeh”. Il mulattiere scarica le pelli sporche e carica quelle pulite, seguendolo si entra in un vicolo chiuso che finisce in un cortile occupato da una serie di vasche bianche piene d’acqua e cacca di piccione dove immergono il pellame, da tutte le parti ci sono pelli stese ad asciugare sembra di essere sul Golgota dell’oltretomba e di assistere alla crocefissione di migliaia di fantasmi essiccati.
Nelle stanze intorno al cortile al piano terra ci sono delle vasche dove fanno trattamenti con i colori, mentre al livello superiore, con delle lame a mezzaluna, tolgono la lana dalle pelli bloccate sopra dei travicelli murati in diagonale fra le pareti delle stanze all’altezza delle ginocchia. Sul tetto ci sono i tintori veri e propri che con le mani stanno strofinando i cuoi morbidi con lo zafferano sciolto nell’olio di argan colorando di giallo i resti ovini destinati a diventare babbucce. E’ un mondo di lavoratori silenziosi e metodici in antitesi con quello dei mercanti che riempie di voci e urla le vie principali di Fes. Scendiamo verso le concerie Chouwara, anche qui è un mulo carico di pellame che ci indica la direzione, è una zona frequentata dai turisti lo si capisce dalle tante botteghe. Qualche scaramuccia coi bottegai, ma poi entriamo nel cuore della conceria. Siamo nell’arena del puzzo e del colore, le vasche multicolori al centro della scena e tutto intorno le mura bianche e lucide che trasudano degli sgradevoli aromi delle tinture, venti metri più in alto le terrazze dei negozi con i turisti che si affacciano sul “palcoscenico” co’le foglie di menta sotto il naso a mo’ di maschera antigas. I conciatori si muovono sulla scena come attori consumati, fieri di essere nonostante tutto i protagonisti dello spettacolo, nell’arena policroma e cangiante dove ci si sente un po’ bestie e un po’ eroi, nel groviglio nasuseabondo degli aromi inquinati si percepisce profumo inebriante del protagonismo, magari da attori corrosi e sgualciti destinati al ruolo di dannati e perdenti, ma sempre meglio che spettatori destinati a fare da cornice che, per quanto linda, sarà sempre e soltanto cornice. Le fumate della calce viva scaricata nelle vasche nascondono le smorfie di fatica e i tanti sacchetti di coloranti chimici preparano atroci conseguenze sulla cute e sui polmoni di questi ragazzi. All’inizio sembra tutto casuale e disordinato, ma dopo un po’ ti rendi conto che la tintoria tutta si muove armonica come un organismo, fra le vasche ci sono impercettibili sentierini che non vedi ma che puoi seguire con l’olfatto, ognuno legato a un trattamento, dentro le nuvole di calce si coglie il movimento vigoroso dei conciatori, mani sui bordi delle vasche e poi spingere con le gambe immersi nel veleno fino ai coglioni, il lavoro più ingrato tocca a chi è dentro alle vasche di merda per trattare e tirare fuori le pelli poi destinate alle grandi lavatrici di legno, delle botti piene d’acqua che girano per mezzo di una cinchia dentata azionata da un motore elettrico che fa tanto Giulio Verne, mentre il cavo della treeottanta che alimenta il tutto con le giunte volanti in mezzo a questo umido putrido fa tanta paura. Dopo il lavaggio le vasche dei tintori, dove l’omini sembrano polpi perché prendono il colore della buca, poi le pelli trattate vengono messe in una balla e portate al vicino fiume, che in realtà è un fossetto, per il risciacquo ed infine con delle le lame taglienti ripuliscono dalle ultime scorie le pelli tinte e le consegnano ai cucitori. La tintoria è una congregazione chiusa dove si tramandano il lavoro di padre in figlio da oltre cinque secoli, una setta di maghi alchimisti schiavi del successo della loro merce per il quale immolano ogni possibile diverso scenario futuro. Mentre saluto “i gladiatori colorati” mi torna in mente un minatore boliviano che mi accompagnò qualche anno fa a Potosì in una disgraziata miniera di piompo quasi esaurita e abbandonata della grande compagnia yankie. Continuava a scavare insieme a tanti altri perché lì prima di lui lavorava il su babbo, il su nonno e il su bisnonno e li lavoreranno i suoi figli perché la sua è una famiglia di minatori e quando una compagnia prima o poi tornerà loro saranno lì pronti. Risaliamo la Medina, le vie sono ritornate strette e dense di gente e di merci ma non riesco a sentirne l’odore perché sono ancora impregnato di conceria. Rachida ci viene a prendere, è la prima volta da quando siamo partiti che entriamo in una casa “normale” divani, lo stereo, i libri e i giochi dei bimbi, mi sembra tutto gigante e pieno di cose. Si sveglia Ghali Ahmed, è un bel bimbo che ha appena finito un anno, è moro e ridaccione e mi ricorda tanto Giacomo il mi nipotino biondo e come a Giacomo gli piace giocare e farsi lanciare in alto. Anche Ghali come tutti i bimbi incontrati durante il viaggio è affascinato dalla macchina fotografica e soprattutto dalla sua immagine. Sono contento di questo incontro e dell’intervista che mi darà la possibilità di raccontare e ringraziare la grande forza spirituale e morale della gente dall’Atlas, profeti della semplicità e maestri di tolleranza e di ospitalità. |
© 2024 Elba e Umberto