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marcassite

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chiodini di marcassite

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La magia del mare estinto e l’incontro con lo sguardo di un viaggio chiamato speranza
Il chiarore del nuovo giorno mi sveglia, ci godiamo un’alba meraviglia dalla tenda, il sole gigante e pallido sorge da quella che sembra una banchisa di ghiaccio, velocemente le sagome inusuali di questa depressione prendono forma mentre il cielo pennellato da stracci di nuvole leggere diventa arancio. Si fa colazione con pane e marmellata, poi si lascia la tenda montata con lo zaino grande dentro e si inizia a girare spingendosi all’interno del Deserto Bianco, purtroppo la luce non è quella tersa di ieri, è tutto ovattato, avvolto in una foschia flebile che rende vaghe e indefinite le forme e le distanze, è tutto molto suggestivo, ma purtroppo le foto non rendono onore a questa atmosfera fiabesca. Si cammina fra letti di sabbia e grandi piastroni di gesso da cui sbuca tanta marcassite, il minerale di ferro più comune da queste parti, si tratta di un bisolfuro di rame con la stessa composizione chimica della pirite, che si è originato dall’interazione del ferro contenuto nell’acqua dell’antico mare, con lo zolfo presente nei depositi di sedimenti organici del fondo marino. Ce ne sono tanti noduli di svariate forme, le più appariscenti in forma di elaborate croci di ferro, oltre al minerale tutt’intorno ci sono centinaia di conchiglie e tanti resti di coralli fossilizzati.
Camminando in direzione Sud incontriamo una grande distesa di funghi di calcare e poi delle strane “bolle” di gesso e di fango, fra queste forme cangianti è facile perdere l’orientamento, un po’ perché la foschia aumenta ma sopratutto perché questo delirio di “forme informi” è così suggestionante che la mente inizia a vagare in costruzioni fantastiche che ti fanno stare bene ma poi ti portano fuori rotta. Per avere dei riferimenti bisogna salire sui rilievi di calcare latteo che ogni tanto si elevano come isole dalle sabbie, questi accumuli levigati dall’erosione hanno forme plastiche disseminate di tanti chiodini di marcassite che osservati da vicino svelano forme complesse formate da sovrapposizioni di cristallizzazioni geometriche di incredibile perfezione, questo deserto anomalo regala bellezza e meraviglia sia nella vastità che nel dettaglio. La luce è stranissima sembra di essere dentro una nuvola, questa nebulosità però attenua il calore che altrimenti sarebbe insopportabile. Si avanza da diverse ora fra sabbia e gesso, dovremmo aver percorso una ventina di chilometri quando entriamo in una zona di isolotti di calcare rotondeggianti, hanno la base circondata da un cerchio di marcassite e cristalli che l’erosione ha scavato e fatto precipitare. Ancora qualche centinaio di metri e incontriamo una grande piazza di gesso sopraelevata, al suo interno ci sono grandi linee rette dove si concentrano accumuli di cristalli, da qui cominciamo a tornare in direzione del nostro campo base, facendo però un giro diverso e lungo il cammino incontriamo un’enorme vena di marcassite e poi un filone di grandi cristalli di gesso lungo diverse decine di metri, ritroviamo il terreno sabbioso e finalmente anche un pochina di vegetazione cespugliosa e qualche piccola palma, saliamo su un grande altopiano e dalla sommità mi rendo conto che sono mezzo chilometro più a ovest di quello che pensavo, da qui si ammira una vasta distesa di coni dalla base larga e la forma arrotondata che si disperdono a perdita d’occhio fino a svanire nella foschia, sembrano gigantesche lampate (patelle per i continentali) che vagano nelle sabbie per effetto della caligine che fa vibrare tutto. Ancora bolle di fango e funghi di gesso e poi lunghi strani fossili che affiorano dal calcare, sono come alberelli stilizzati che assomigliano a gorgonie fossilizzate e forse lo sono davvero, una distesa di grandi conchiglie poi ancora marcassite, stavolta oltre ai soliti chiodi è presente anche in forma di spirale e poi, dopo una giornata a vagare, di nuovo alla tenda.
Questa prima uscita nel Deserto Bianco è stata eccellente, ora però bisogna rientrare anche per capire come reagiscono i poliziotti. Ripassiamo dal primo campo di funghi incontrato e poi ritroviamo l’asfalto, una breve attesa di una mezz’oretta poi passa un pik up che ci da un passaggio fino a Farafra, soliti due controlli ai posti di blocco con solite domande e poi di nuovo in paese. Si mangia in un posticino dove sono gentili ed economici e i proprietari, babbo e figliolo ci parlano del “progetto italiano” che anche qui, come a Siwa, ha una sede. Facciamo anche una sosta al cafè per prendere uno shai (the) e giocare un po’ a domino e poi si rientra al fondouk dove inizia una epica battaglia con le zanzare. Arriva la notte che qui a causa delle temperature diurne è un momento di massima vitalità della comunità, fuori si sta decisamente meglio, ritorniamo al café della stazione, Farafra è Africa vera, da qui transita diversa gente proveniente da sud che risale verso Settentrione in cerca di fortuna, questo locale che mi piace perché non ti trattano da turista, è un posto interessante, mi incuriosisce e mi affascina un gruppetto di tre ragazzi, probabilmente provenienti dal Sudan o comunque dall’Africa Sub Sahariana, stanno aspettando un passaggio, questa è gente che si sposta in cerca di sopravvivenza (la fortuna qui è un concetto troppo astratto) con un sacchetto di plastica come bagaglio, sono diretti verso nord, hanno occhi larghi e spauriti, pieni di paura ma anche di coraggio, chi ha i documenti regolari viaggia con i bus di linea, gli altri si arrangiano come meglio riescono; arriva un furgone, un incrocio di sguardi e saltano dentro, in un attimo svaniscono come fantasmi e proseguono il loro viaggio di speranza.        

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